| OPERA DISPONIBILE
Giuseppe Cades
Roma 1750 –1799
Papa Gregorio Magno consegna la regola benedettina ai santi Costantino e Simplicio •
Olio su tela, 64 × 78 cm
Il dipinto, caratterizzato da un segno sicuro e da un colore caldo e luminoso, ‘neoveneziano’, appartiene alla prima maturità di Giuseppe Cades. Un disegno autografo del pittore, del medesimo soggetto, reso noto per la prima volta da Gian Carlo Sestieri (1981, scheda 179 a p.105), è datato da Maria Teresa Caracciolo (1992, scheda 40 alle pp. 209-210) agli anni della realizzazione di una delle sue principali commissioni giovanili, la grande pala con l’Estasi di San Giuseppe da Copertino per la basilica romana dei Santi Apostoli (1778-79).
Si tratta probabilmente di un “pensiero” per una composizione di maggiori dimensioni; curiosamente, è il disegno a presentare significativi particolari, assenti nella tela, che consentono di precisarne il soggetto. La colomba a lato della tiara a una sola corona del pontefice lo identifica in San Gregorio Magno, e i nimbi sul capo dei due monaci genuflessi ne indicano la santità. Il disegno – e di conseguenza il nostro dipinto – raffigura con molta probabilità la conferma della regola benedettina ai Santi Costantino e Simplicio, compagni e successori di Benedetto quali abati di Montecassino e che Gregorio Magno nei suoi Dialoghi cita come fonte diretta per la sua Vita di San Benedetto: “Non potrei conoscere tutti i fatti rilevanti e le azioni della sua vita: ma quei pochi, che ho intenzione di riportare ora, li ho saputi dai suoi discepoli; san Costantino, un uomo prezioso e rispettoso che fu abate dopo di lui; san Simplicio, che era il terzo superiore del suo ordine”. Gregorio sostenne l’ordine benedettino e promosse la fondazione di numerosi monasteri, tra i quali quelli britannici di Canterbury e di Westminster, inviando in loco i monaci Agostino e Lorenzo (anch’essi possibili candidati per l’identificazione dei due santi).
La veste bruna dei monaci non corrisponde all’abito tradizionale benedettino, nero o bianco; il colore, che ricorda quello del saio francescano, è forse anteriore alla stesura definitiva, nella quale furono probabilmente inseriti anche i qualificanti dettagli presenti nel disegno, dove compare inoltre un cartiglio sul gradino del trono pontificale.
Per il momento si ignora se sia mai stata eseguita una tela di questo soggetto, a quanto mi risulta un unicum sia nell’iconografia di San Gregorio Magno che in quella benedettina; più che per una pala d’altare, sembrerebbe il modello per un quadro da stanza o per il laterale di una cappella. Come i dipinti coevi – per esempio le due tele del Louvre, Achille e Patroclo nella tenda e Cornelia, madre dei Gracchi – mostra un Cades decisamente sperimentatore. Nella sua prima maturità e oltre, la sua pittura ne rivela la particolare sensibilità a suggestioni neomanieristiche che lo apparentano a quegli artisti definiti felicemente da Giuliano Briganti “pittori dell’immaginario’; le sue giovanili esercitazioni grafiche su soggetti cinquecenteschi erano tali da farlo considerare quasi un falsario dai contemporanei. Luigi Lanzi nell’Epoca Quinta della sua Storia Pittorica, scrisse che Cades – cui riconosceva peraltro una vis pittorica tra le più originali e potenti della sua epoca – possedeva “un talento d’imitatore pericoloso alla società […]. Nell’arte ancora del colorire poco dovette alla voce viva, molto all’innato suo talento d’imitare”. Il giudizio di Lanzi oggi non appare condivisibile, almeno nelle sue espressioni più limitative: oggi concordiamo con i contemporanei Vincenzo Pacetti e Giacomo Quarenghi. Alla sua morte lo definirono il primo “nato pittore”, il secondo il solo che avrebbe potuto colmare il vuoto lasciato da Pompeo Batoni, vedendo in lui l’artista che in tutto il suo percorso ricercò costantemente nuovi modi espressivi, mantenendo una forte e inconfondibile personalità.
Indicazioni bibliografiche: R. Roli, G. Sestieri, Il disegno italiano. Il Settecento, Treviso 1981; M. T. Caracciolo, Giuseppe Cades 1750-1799 et la Rome de son temps, Paris 1992.
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