Belli: monumento Canova

Belli: monumento CanovaGiovacchino (Roma 1756-1822)

e Pietro Belli (1780-1828)

Monumento di Maria Cristina d’Austria, da Canova

1815 circa

Marmo statuario di Carrara, marmo nero, bronzo ribattuto a martello, cesellato e dorato a doppia doratura, cm 21,7 x 18,5 x 7

Questa preziosa riduzione in scala del Monumento di Maria Cristina d’Austria di Antonio Canova (Vienna, Augustinerkirche), testimonia il culto dei contemporanei per le invenzioni del grande scultore, divenute immediatamente popolari grazie alla diffusione di traduzioni incisorie e calchi in gesso che lui stesso promuoveva. A questa fama contribuirono immediatamente anche raffinate repliche eseguite da altri artisti in diversi formati e tecniche, dalla pittura (i monocromi dipinti da Bernardino Nocchi ad esempio), al cammeo e all’intaglio in pietra dura, come nel caso delle celebri gemme incise da Giuseppe Girometti per il mecenate Giambattista Sommariva.

La manifattura Strazza e Thomas di Milano realizzò una splendida riduzione in bronzo dorato dell’Ebe per il marchese Giovanni Edoardo de Pecis, che gli richiese anche la riproduzione del Monumento ad Appiani di Bertel Thorvaldsen (Milano, Pinacoteca Ambrosiana). Contemporaneamente anche la bottega romana di Wilhelm Hopfgarten e Benjamin Ludwig Jollage ricavava dalle statue mitologiche di Bertel Thorvaldsen riduzioni in bronzo, della medesima tipologia, per uno straordinario deser destinato al principe ereditario di Danimarca Christian Frederik (Copenaghen, Amalienborg Palace, Kongernes Samling; cfr. Canova Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna, catalogo della mostra, Milano, Gallerie d’Italia, a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, Milano, Skira, 2019, pp. 171-181).

La versione in piccolo in bronzo dorato e marmo, nella proporzione di circa un quarantesimo, del Monumento di Maria Cristina d’Austria corrisponde a quel tipo di produzione. Ma non appare in rapporto con le opere citate, bensì con tre magnifiche riduzioni in scala dei tre archi di Tito, Settimio Severo e Costantino eseguite dai maestri argentieri romani Giovacchino e Pietro Belli, tra 1808 e 1815, nel rapporto rispettivamente di un quarantesimo, il primo, e di un quarantacinquesimo, gli altri. Questi sontuosi lavori rientravano nella tipologia delle memorie dall’antico, dei souvenir destinati ai viaggiatori del Grand Tour, ma al livello più elevato, appropriato alle “mense de’ Grandi, o ai gabinetti de’ Principi; ove in luogo di una muta suppellettile, soggetta ai capricciosi cambiamenti della moda, questi soli archi sono sufficienti a somministrar loro una serie di eroiche azioni, una storia progressiva dell’Arte, un codice il più autentico d’infiniti costumi tanto barbari che Romani, da Tito a Costantino, quasi a dire dalla cuna alla tomba dell’Impero Romano” (Giuseppe Antonio Guattani, I tre archi trionfali di Costantino, Severo e Tito eseguiti in piccola proporzione con marmo e metalli dorati dalli signori Gioacchino, e Pietro Belli romani scultori in metallo, Roma, Bourlier, 1815, pp. 5-6).

Così scriveva il Guattani, segretario dell’Accademia di San Luca e colto compilatore delle “Memorie Enciclopediche Romane per le Antichità e Belle Arti”, nella sua descrizione a stampa dei lavori che i Belli avevano eseguito sulla base dei rilievi architettonici di Giuseppe Camporese, stagliando sul marmo statuario le raffinatissime traduzioni in bronzo del partito scultoreo. Sia la parte architettonica sia quella scultorea prevedevano le ricostruzioni ideali di quanto perduto, sulla base dell’erudizione antiquaria, giungendo, per l’arco di Tito, ad anticipare la soluzione poi adottata da Raffaele Stern e Giuseppe Valadier per il successivo restauro considerato anche oggi esemplare.

Come preconizzato da Guattani, le tre opere giunsero in una collezione reale, venendo acquistate da Giorgio IV d’Inghilterra, che pure non aveva mai potuto compiere il Grand Tour. Dopo l’acquisizione da Pietro Santi Ammendola, il mercante romano che ne aveva promosso l’esecuzione e li aveva portati a Londra, furono collocati a Carlton House nel 1816, come “most ingenious specimens of sculpture in miniature” (W.H.Pyne)  e si trovano ora a Windsor Castle, Garter Throne Room (figg. 1-3; cfr. Roberto Valeriani, in E. Colle, A. Griseri, R. Valeriani, Bronzi decorativi in Italia. bronzisti e fonditori italiani dal Seicento all’Ottocento, Milano 2001, cat. 65, pp. 230-232; George IV. Art & Spectacle, exhibition catalogue, The Queen’s Gallery, Buckingham Palace, edited by Kate Heard and Kathryn Jones, London 2019, pp.  187-188, 252).

Giorgio IV era allora committente di Canova e proprio il grande scultore aveva sancito la perfezione artistica dei tre archi e l’abilità in particolare di Pietro Belli, non solo orafo erede e continuatore della grande tradizione di famiglia, ma artista in grado di aggiudicarsi anche i premi nel disegno messi a concorso dall’accademia di San Luca (sui Belli si veda Costantino Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia, I, 1, Roma 1959, pp. 123-129). Guattani ne riportava le parole: “Attesto di aver veduti i sopranotati lavori eseguiti con ingegno, esattezza, e precisione infinita, tanto nelle parti che sono in marmo, come negli ornati, e bassirilievi; onde l’opera industriosa e lodevole sembra a parer mio degna di molta stima e approvazione degli amatori.” (Guattani, I tre archi, cit., p. 56).

Tale doveva essere la stima per Pietro Belli che proprio a lui si rivolse Canova per “il sopradetto vaso e tazza eseguito a martello ed a cesello ornato con fogliami e dorato a doppia doratura”, elementi bronzei aggiunti all’Ebe in marmo destinata alla contessa Veronica Guarini (fig. 5, Forlì, Musei di San Domenico; lettera di Pietro Belli ad Antonio D’Este, 2 maggio 1817, in Antonio Canova, Epistolario (1816-1817), a cura di Hugh Honour e Paolo Mariuz, T. II, Roma, Salerno, 2003, n. 714, p. 802).

È nel quadro di questi rapporti professionali e di questa cronologia che deve essere collocata l’esecuzione belliana della riduzione Monumento a Maria Cristina. La tecnica, descritta nella lettera citata come fusione in bronzo ribattuta a martello, cesellata e finita a doppia doratura, e gli esiti raffinatissimi sono in tutto corrispondenti ai tre archi di trionfo. Destinata a una committenza precisa, forse sollecitata dallo stesso Canova, o eseguita come opera di scultura in miniatura in gara di emulazione con il modello di scultura in grande, la piramide dei Belli avrebbe potuto rammentare al suo possessore il significato di quello che Stendhal aveva giudicato il più bel monumento mai realizzato. Canova, rivoluzionando la traduzione secolare della scultura funeraria, aveva qui sostituito le consuete figure allegoriche con l’azione corale e sentimentale di un corteo, destinato a evocare una riflessione universale sui significati della vita e della morte.

Stefano Grandesso

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