Cagnaccio di San Pietro (Natalino Bentivoglio Scarpa)

Desenzano del Garda, 1897 – Venezia, 1946

San Gerolamo • 1925-1943

olio su tela, 72 x 57 cm

Bibliografia: Mostra dei primi espositori di Ca’ Pesaro (1908-1920), catalogo della mostra (Venezia, 1948), Ferrari, Venezia 1948, sala II, n. 40; L. Bergamo, L’arte di Cagnaccio di San Pietro, in “Il Gazzettino”, 18 novembre 1935-XIV, p. 6; Prima mostra artisti scomparsi (1913-1963), catalogo della mostra (Milano, Palazzo del Turismo, 12-28 ottobre 1963), a cura della Unione Internazionale Vedove d’Artisti, Archeotipografia di Milano, Milano 1963, p. 16, n. 41; Cagnaccio di San Pietro, catalogo della mostra (Milano, Galleria Gian Ferrari, 24 maggio-22 luglio 1989), Electa, Milano 1989, p. 77; Cagnaccio di San Pietro, catalogo della mostra (Venezia, Museo Correr), Milano 1991, pp. 32, 33, p. 33 ill.; Cagnaccio di San Pietro. Il richiamo della Nuova Oggettività, catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna, 6 maggio-27 settembre 2015), a cura di Dario Biagi, Silvio Fuso, Elisabetta Barisoni, Grafiche Veneziane, Venezia 2015, p. 18 ill.

In un clima che vedeva nuovamente la chiesa porre una seppur timida attenzione alla problematica della produzione artistica fra l’esigenza di elaborazione di un linguaggio nuovo e il rispetto delle istanze tradizionali, a partire dall’istituzione nel 1924 della Pontificia Commissione Centrale dell’arte sacra, va probabilmente collocata la commissione a Cagnaccio di San Pietro per la realizzazione nel 1925 della pala d’altare raffigurante San Martino e il mendicante destinata all’altare maggiore della chiesa dedicata al santo nel piccolo comune di Salgareda, in provincia di Treviso, il cui apparato decorativo si doveva invece ad un artista di ambito dannunziano come Guido Cadorin.

Nel novembre del 1935 sulle colonne del quotidiano “Il Gazzettino” venne pubblicato il dipinto relativo alla fase preparatoria per la pala che raffigurava il solo particolare del volto del mendicante con il titolo Vecchio (ritaglio conservato presso l’Archivio del ‘900) a distanza di quasi vent’anni è lo stesso Cagnaccio a rimaneggiare quest’opera trasformando il soggetto in San Girolamo e apportando alcune lievi modifiche compositive.

Già nella prima versione il dipinto, secondo il modus operandi caratteristico dell’artista, rifletteva quei caratteri di finitezza e cristallina accuratezza pittorica che nulla concedevano alla rapida stesura da studio, ma era pensato in ogni minimo dettaglio tanto da risultare pressoché palmare alla definitiva versione per la chiesa trevigiana.

Rispetto alla prima versione scompaiono la firma e la data già apposti in basso a sinistra (vi si leggeva 1925 / Cagnaccio), il braccio destro, che nello studio si intuisce allungato in avanti come nella pala d’altare, viene invece piegato e abbassato per rientrare più compiutamente nell’inquadratura, scompare il bastone da viandante che vi si sovrapponeva e compaiono sul fondo alcune rocce appena vivacizzate da un piccolo ciuffo d’erba e lo spicchio azzurro del cielo contro le quali si staglia il profilo del santo. Il processo di trasformazione della testa di vecchio in San Girolamo è testimoniato anche da un disegno preparatorio che coincide con l’opera qui in esame.

Con il titolo San Girolamo l’opera venne esposta sia alla Mostra dei primi espositori di Ca’ Pesaro allestita a Venezia nel 1948, dove appariva di proprietà della moglie dell’artista Romilda, sia, in seguito, alla milanese Prima mostra artisti scomparsi (1913-1963) nel 1963.

Seppur non totalmente scevro da quell’attenzione ai volti di soggetti diseredati, il dipinto riflette piuttosto, nel nitore della stesura cromatica enfatizzata dalla luce limpida e analitica e nelle linee rigorosamente definite, la personale rielaborazione di Cagnaccio di temi e soluzioni di derivazione quattrocentesca, tanto tecniche quanto teoriche, la cui meditazione rientrava in un clima di più ampia ricerca nei confronti dell’antico i cui prodromi si possono individuare, ad esempio, nell’opera di Tullio Garbari, nella quale l’insistenza su un disegno essenziale nell’ottica del superamento del naturalismo impressionista rivelava lo studio su Masaccio e sull’Angelico e si inseriva, più compiutamente, nel clima “secessionista” di Ca’ Pesaro ove espose con due personali nel 1910 e nel 1913. Se, dopo la parentesi bellica, la prima esperienza capesarina di Cagnaccio nel 1919 rifletteva ancora le ultime giovanili suggestioni di ambito futurista con le opere Cromografia musicale e Velocità di linee-forza di un paesaggio, alle sue successive meditazioni sull’arte – “Credo di arrivare a poter tradurre pittoricamente l’astratto e questo mi porta all’astruso […] Ma essendo la pittura un’arte oggettiva, ben presto mi accorgevo che non poteva comunicare all’umanità nascendo dal soggettivo e così deluso mi trovai randagio credente in cerca di Dio” (dalla prefazione autografa alla mostra personale alla Galleria Genova, Genova 1935, cit. in Claudia Gian Ferrari (a cura di), Cagnaccio di San Pietro. Dipinti e disegni dal 1918 al 1945, catalogo della mostra, Milano 1993, p. 70) – non dovettero forse essere estranee la conoscenza e il clima già suggeriti dal collega trentino e dalla critica: “[…] Se oggi si dipingessero e si esponessero le figure graziose e divote, tonde e rosate, che dolcemente dipingevano Gentile da Fabriano o l’Angelico, il pubblico andrebbe in visibilio. […] bisogna pensare al grande sforzo di ricerca naturalistica, spesso caricaturale che preparò attraverso l’artigliosità spasmodica degli Squarcioneschi, o le violenze anatomiche brutali di Andrea del Castagno o le assurdità prospettiche di Paolo Uccello […] I tempi sono mutati e il progresso è verso la maggiore sincerità degli antichi” (Gino Fogolari, in “Gazzetta di Venezia”, 23 maggio 1913 cit. in Silvio Branzi, I ribelli di Ca’ Pesaro, Pan Editrice, Milano 1975, pp. 27-28).

Nel breve volgere di una decina d’anni sarà ancora la critica più accorta a definire organicamente quell’attenzione all’antico che culminerà nel saggio di Lionello Venturi Il gusto dei primitivi edito nel 1926, sicura ricognizione che anticipa i legami e le possibilità di sviluppo con l’arte del passato, e con la pubblicazione nel 1927 della monografia dedicata a Piero della Francesca a cura di Roberto Longhi, edita da Valori Plastici, nella quale il critico sanciva definitivamente l’apertura verso una rinascita umanistica che “dava allo spirito inquieto della gioventù intellettuale ed artistica di allora una visione contenuta in un rigore mentale per quanto riguarda la forma, gli spazi e il contenuto stesso. Con l’evocazione della nuova realtà Longhi apriva senza dubbio alla fantasia un nuovo mondo” (Alberto Ziveri, cit. in Maurizio Fagiolo dell’Arco (a cura di), Scuola romana, artisti tra le due guerre, catalogo della mostra Roma 1983, Mazzotta, Milano 1983, p. 87).

L’algida esattezza pittorica, che non a caso ha fatto assimilare l’opera dell’artista a quella di simili esperienze di area mitteleuropea, si unisce qui alla scelta di un soggetto di chiara derivazione antica, che rivela tanto l’attenzione a temi popolari quanto una personalissima rielaborazione del classico, che non va confusa con quella ricerca di purismo neoclassicista che già animava, ad esempio, le coeve soluzioni di Achille Funi, ma frutto di una più profonda ricerca e rielaborazione individuale che, nonostante un apparente distacco – “Non è possibile parlare di un ritorno all’antico o tanto meno di paragonabili ai pregiotteschi, quando il passato è in noi e tutto davanti agli occhi” (Gian Ferrari 1993, op. cit., p. 70), scriveva Cagnaccio nel 1935 – aveva nei quattrocenteschi veneti i principali punti di riferimento iconografici, da Andrea Mantegna a Carpaccio, da Carlo Crivelli a Andrea da Murano.

Se, rispetto ad altre opere della metà degli anni venti – Bambini che giocano, La lettera, Le due sorelle – l’iconografia religiosa ha limitato le arditezze prospettiche a favore di una più canonica composizione, l’incisività dei dettagli e la fissità iperrealistica della figura lambita dalla luce fredda e tagliente riflettono quell’adesione al “realismo magico” restituendo, grazie al perentorio realismo e all’accuratezza psicologica, un ritratto di rara robustezza e suggestione spirituale.

L’aggiunta, sotto la firma, delle iniziali S.D.G., che appare nelle opere di Cagnaccio a partire dal 1940 circa, è interpretabile come la dicitura Soli Deo Gloria, tratta dalla lettera che Giovanni Calvino spedì da Ginevra nel settembre 1539 al cardinale di Carpentras Jacopo Sadoleto, a testimonianza che il corretto orientamento dell’esistenza scaturisce dall’esprimere e accrescere la gloria del Signore.

Francesco Parisi

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