Ercole Rosa - L’America libera uno schiavo

Ercole Rosa - L’America libera uno schiavoErcole Rosa
(Sanseverino Marche 1846 – Roma 1893)

L’America libera uno schiavo

Terracotta, cm 28 x cm. 16

Firmato e datato sulla base: IL 1862 E – ROSA

Inedito, il bozzetto rappresenta la figura allegorica dell’America, con le penne in testa e lunghe trecce da squaw, china a baciare sulla fronte uno schiavo nero inginocchiato, legato da una catena che ne ricopre il pube. Sorreggendolo con ambo le mani, ella lo aiuta a sollevarsi.

Si tratta d’una prova precocissima del talento di Rosa, che nel 1862, sedicenne, esce dall’Ospizio Apostolico del San Michele, dove aveva completato da autodidatta la formazione ricevuta dal padre scalpellino e modellatore di statuine in terracotta per il presepe, dedicandosi alla copia delle statue classiche. Vista l’indigenza della sua famiglia, Rosa continuerà a percepire dopo la chiusura dell’istituto, fino al 1866, la retta mensile di tre scudi versata dal vescovo di Sanseverino F. Mazzuoli. Dal 1862 egli lavora come sbozzatore presso affermati scultori quali Francesco Galletti, Giuseppe Trabacchi, e il tedesco Josef von Kopf; lavorando inoltre presso il fonditore Messina e collaborando con la scultrice duchessa Colonna (Adèle d’Affry, in arte Marcello, saltuariamente a Roma tra il 1861 e il 1869) (Gramiccia, in Susinno 1981, pp. 15-16).
In questi anni il giovane scultore frequenta anche l’Accademia di San Luca, il che può giustificare la notevole somiglianza del bozzetto, incentrato sulla contrapposizione delle due figure, femminile e maschile, alle terrecotte premiate di Manuel Olivé (Enea e Creusa) e di Chinare (Perseo e Andromeda, 1786). Come i numerosi bozzetti dell’artista conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, l’opera mostra la forza di un modellato che, lontano da ogni gratuito virtuosismo, definisce plasticamente le forme in poche masse organiche. Qualità particolarmente evidenti nelle terrecotte, che Rosa lascia nello stadio felice del primo definirsi dell’idea. La sua tecnica, che sembra risentire della giovanile pratica di plastificatore di figurine da presepio, è potentemente semplificatoria; la figura e il suo movimento sono ottenuti con un processo di continua giustapposizione di piccole masse articolate che, unendosi e scontrandosi, definiscono dinamicamente la forma e il suo perentorio accamparsi nello spazio (Susinno 1981, p.9). Il suo modellato rende l’idea di quella particolare “nobiltà e larghezza” riconosciuta dalla critica novecentesca (Bucarelli 1936), per cui Rosa, pur appartenendo alla poco apprezzata corrente verista, restava uno dei migliori scultori della seconda metà del secolo XIX, se non senz’altro “il più potente” (Sapori 1919). La concezione del gruppo rimanda da un lato alla dirompente spazialità berniniana, dall’altro alla ricerca d’una monumentalità di tipo michelangiolesco, termini fondamentali cui l’eclettismo verista di Rosa saprà aggiungere, a seconda dell’occasione, l’utilizzazione di nuovi linguaggi (Susinno 1981, p.7).

Il tema di attualità politica della liberazione dalla schiavitù, portato alla ribalta dalla guerra di secessione americana (1861-65) e risoltosi di lì a poco con il proclama di Lincoln per la liberazione di tutti gli schiavi (1863), mostra il precoce impegno militante dello scultore, che il 3 novembre 1867 parteciperà a fianco di Garibaldi alla battaglia di Mentana. Dall’esperienza vissuta nasce la prima idea in gesso per ilMonumento ai Fratelli Cairoli, che Rosa presenta il 16 novembre seguente a Piazza del Popolo in un concorso indetto dal Municipio, ottenendo il premio di lire 5.000 e l’incarico dell’esecuzione del monumento. Ammirato con commozione da Garibaldi, che nel 1875 incarica lo scultore di ritrarlo in busto, il gesso dei Cairoli è esposto a Napoli nel 1877, imponendo l’artista all’attenzione della critica a livello nazionale.
Realizzato in bronzo nel 1883 e collocato sulla passeggiata del Pincio, dove s’intendeva realizzare un Pantheon di uomini illustri del Risorgimento, il monumento è riconosciuto dai contemporanei come il “primo dell’epopea nazionale” (Mainieri 1883, p. 12).

Alessandra Imbellone

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