Gonzalvo Carelli

(Napoli 1819 – 1900)

Veduta del Golfo di Napoli dai Giardini Reali di Portici • 1846

olio su tela, cm 108 x 198

Firmato a destra su una roccia: “Gonzalvo / Napoli”; sul retro, a pittura sulla tela: “Gonzalvo Carelli / Napoli 1841”

 

La veduta è ripresa dalla parte orientale del golfo, dalle prime pendici del Vesuvio. Nella parte inferiore è rappresentato un territorio accidentato, con rocce emergenti, solcato da valloncelli e a balze digradanti verso il mare. La vegetazione è tipica della zona vesuviana, fatta di macchia dominata da pini e querce, punteggiata da rari fichi d’India e agavi, fra cui si aprono delle radure che, oltre la linea inferiore degli alberi, si spingono fino al mare. Presso il querceto che chiude la composizione sulla destra sostano quattro cacciatori – uno è a cavallo – con accanto quattro cani, un asino carico dell’occorrente per la caccia e due cavalli. In terra giacciono un cerbiatto e tre faggiani.  Dalla sinistra, sul sentiero, si avvicinano altri due cacciatori a cavallo con i loro cani e due assistenti. Lungo la costa, o meglio sul crinale che precipita sul mare, vediamo quasi al centro una torre quadrata ed un molo sottostante e, guardando verso destra, un convento e un paio di gruppi di case. Il golfo di Napoli, punteggiato da barche a vela, è delimitato dall’arco costiero della città di Napoli, dominata dalla collina del Vomero con Castel S. Elmo e la Certosa di S. Martino e conclusa dalla punta di Pizzofalcone a cui si aggancia col ponte il Castel dell’Ovo. Alle spalle domina l’alta collina dei Camaldoli, oltre cui si intravvedono i colli dei Campi Flegrei che si protendono nel mare fino al rilievo di capo Miseno, continuato dalle isole di Procida e di Ischia che chiudono lo specchio del golfo.

La veduta descritta corrisponde a quella che si vede da Portici, anche se alcuni dati topografici risultano un po’ alterati per esigenze di rappresentazione. Anche il territorio raffigurato in primo piano corrisponde alla parte estrema di Portici, verso Resina (ora Ercolano), nota oggi, come pure nel Settecento, col toponimo di Granatello, per la presenza in antico di molti alberi di melograni. L’area boschiva dove si è svolta la battuta di caccia sembrerebbe da situare nel Bosco inferiore del parco reale della Reggia di Portici, dove i re di Napoli partecipavano a cacce di animali di penna e di pelo, custoditi in una fagianeria ed in recinti. La presenza nel dipinto di un cerbiatto e tre fagiani rafforza l’ipotesi. Diversi altri dati confermano l’identificazione del luogo, connotato tuttora da un paio di elementi che, per quanto modificati, occupano ancora la stessa posizione e svolgono la medesima funzione di quelli presenti nel dipinto. In questo, ad esempio, appaiono ben evidenti il molo del porto, tuttora attivo, voluto da Ferdinando IV nel 1774, e sulla destra il settecentesco convento di S. Pasquale che con il suo prospetto moderno domina ancora il largo del Granatello. Non esiste più, perché demolito nel 1873, il Forte del Granatello la cui torre quadrata spicca sulla sinistra del molo. Era stata eretta nel XVI secolo sul Capo del Fico per difendere il territorio, poi fortificata ulteriormente con un rivellino negli anni 1738-40 (Formicola 2011, p. 25, passim). Attrasse l’interesse di pittori di vedute come Lusieri o Della Gatta, apparendo anche in qualche stampa. Un altro edificio di prestigio, la settecentesca Villa d’Elboef, ora in pessimo stato, mi pare  riconoscibile in quello dipinto sulla destra di S. Pasquale e più prossimo al mare. Al momento in cui Carelli dipingeva la veduta, l’orografia era più accidentata dell’attuale ed era più evidente il dislivello fra il mare e il pianoro formato dalle lave vesuviane che mascherava la ferrovia, che dal 1839 giungeva presso il porto e che tuttora segue lo stesso tracciato.

Questo quadro fa parte di una serie commissionata dallo zar Nicola I a Carelli e ad altri artisti napoletani. Il sovrano fra il 1845 ed il 1846 intraprese un lungo viaggio diplomatico attraverso varie capitali europee e italiane. Fino a Palermo fu accompagnato dalla Zarina che, per motivi di salute, aveva bisogno di soggiornare in climi più miti. La famiglia e la corte imperiale giunsero in Sicilia il 23 ottobre del 1845, rimanendovi fino al marzo dell’anno seguente, invece lo Zar se ne partì il 5 dicembre, recandosi a Napoli per riprendere il suo giro diplomatico (Lefevre 1959, III, pp. 417-433; Palermo 2007). Nella capitale borbonica in appena una settimana riuscì a partecipare ad un paio di parate e a visitare varie installazioni militari, i luoghi simbolo della cultura, come Pompei o il Real Museo Borbonico, e della moderna industria napoletana, come l’Opificio di Pietrarsa e i Cantieri navali di Castellammare, oltre che residenze reali, come le Regge di Portici e Caserta, castelli e monumenti, come la Certosa di S. Martino (Del Pozzo 1857, pp. 507-508). In tanta frenetica attività riuscì anche a farsi un’idea della coeva produzione artistica napoletana, non saprei dire, visto il tempo disponibile, se attraverso visite agli atelier, come fece durante la tappa romana, o se non piuttosto tramite una piccola esposizione organizzata per lui nella Reggia di Napoli, dove era ospite (Karčeva in Palermo 2007, p. 15), oppure seguendo indicazioni di personaggi come l’ambasciatore Potocky che era in contatto con molti pittori locali. Gli acquisti dello Zar furono diretti per lo più verso la pittura di paesaggio, puntando sui migliori e più noti artisti del genere, Smargiassi, Vervloet, Carelli, Giacinto Gigante (Karčeva in Palermo 2007, pp. 15-16).  Quest’ultimo,  grazie ai buoni uffici di Potocky, eseguì per lo Zar due grandi quadri e fu inviato in Sicilia presso la zarina per ritrarre delle località dell’isola (Ortolani 1970, pp. 208- 209).

Il più giovane dei paesaggisti contattati dallo Zar fu Gonzalvo Carelli, nato nel 1818 ma già abbastanza noto: formatosi presso il padre Raffaele, si era perfezionato nella tecnica dell’acquerello presso William Leicht e già dagli anni trenta aveva riscosso i primi successi nelle mostre borboniche, tanto che il re in quella del 1837 acquistò due sue vedute. Carelli fin dai suoi esordi potè contare su clienti e protettori di alto livello, fra gli altri il Duca di Terranova che gli concesse nel 1837 una pensione per recarsi a Roma dove rimase fino al 1840, frequentando in particolare gli artisti dell’Accademia di Francia. Dopo un breve rientro in patria, nel 1841 partì per Parigi dove rimase tre anni, approfondendo le sue conoscenze tecniche e i rapporti con vari paesaggisti francesi (Martorelli 2002, pp. 15-16), esponendo ai Salons e godendo della protezione della Corte di Luigi Filippo.

Dunque nel 1845 Carelli, grazie alle sue vaste esperienze, aveva raggiunto la maturità artistica e poteva contare su appoggi e compratori altolocati, dalle Corti di Napoli e di Francia ai lord inglesi e agli aristocratici napoletani (Napier 1855. Ed. cons. 1956, pp. 86-88; Martorelli 1991, II, p. 740). Buoni motivi, questi, per farlo includere nel novero dei maestri degni di lavorare per lo Zar. Una fonte che sembra conoscerlo bene, Lord Napier, ricorda che, ritornato da Parigi, partecipò “al patrocinio dell’imperatore di Russia, per il quale eseguì una veduta di Napoli dal parco di Portici ed un bel panorama dal convento dei Camaldoli” (Napier 1855. Ed. cons. 1956, p. 88). Non possiamo dire se siano questi i due quadri di Carelli di cui c’è traccia negli archivi napoletani, infatti le sue sole vedute fatte per lo Zar ed ammesse all’esportazione nel marzo del 1847 e nel marzo del 1849 non vengono descritte (AS-MANN, CABBAA, XX B 1-4.14 e IX D 3-2.11). Siamo però sicuri che l’artista inviò in Russia almeno cinque dipinti, tre dei quali consegnati alla zarina Alexandra (РГИА [Archivio Statale Storico di Russia], ф. 1338, оп. 4, д. 37, ff. 17/18). Fra questi la “Veduta del golfo di Napoli dal giardino reale di Portici” che dovrebbe essere quella oggetto del nostro studio, nonchè la stessa inventariata nel 1856, col n° 367, fra i beni del defunto Nicola I, come “Veduta del golfo di Napoli, 28½ per 48”. Quest’opera, con uguale numero d’inventario e ugual misura, fu di nuovo catalogata verso il 1894 dal barone Lieven e descritta come “Gonsalvo Carelli, Veduta del golfo napoletano con cacciatori, 1846, 29 per 47⅝” (Архив ГЭ [Archivio dell’ Ermitage], ф. 1, оп. 6, лит. А. Дело 42-А, л. 50). Il Lieven descrive, evidentemente, il nostro stesso dipinto aggiungendovi la data 1846.

Nel secondo Ottocento la Veduta era collocata in un salotto del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo, come attestano i documenti ed un acquerello di Eduard Heu, raffigurante l’interno di una sala di quella dimora imperiale (1872; San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage, inv. n° OP-14419): vi si vedono riprodotti, ai lati di un camino con specchiera, la Veduta del golfo di Napoli presa dalla terrazza del Real Palazzo, di Smargiassi (vedi scheda….Smargiassi), e questa Veduta del golfo di Napoli dai giardini reali di Portici, di Carelli. Dopo la caduta della monarchia la tela fu trasferita nei depositi dell’Ermitage e nel 1928, dichiarata di scarso interesse storico, fu immessa sul mercato.

La Veduta da Portici fu firmata da Carelli col solo nome Gonzalvo mentre sul retro si legge una scritta col suo nome e cognome e la data 1841 che contrasta con l’altra del 1846 riportata da Lieven. Appare evidente che l’opera fu sottoposta ad un restauro nel primo Novecento. In tale occasione fu rifoderata e sulla nuova tela, ora difficile da rimuovere, dovettero essere riscritte le generalità dell’autore e la data, salvo incorrere in un errore di trascrizione, riportando l’uno al posto del sei. Ritengo che la data giusta sia il 1846 e che il barone la ricavò dalla scritta originale dipinta sul retro della prima tela. Fra l’altro non si hanno notizie di committenze effettuate da Nicola I anteriormente al 1845, neppure ad altri artisti più noti di Carelli.

Alcune esperienze napoletane dello Zar sono fondamentali per comprendere le novità iconografiche di uno dei quadri richiesti a Smargiassi (vedi scheda…. Smargiassi). E’ possibile che anche la scelta del punto di vista di questa veduta di Carelli, non del tutto nuova, sia stata motivata dal ricordo della visita alla Reggia di Portici, svolta dal sovrano il giorno 11 di dicembre 1845 (Giornale del Regno 12 dicembre 1845, p. 1088). In quest’opera l’artista mostra la sua capacità di comporre su grandi superfici e di venire incontro al gusto della committenza più aulica e sofisticata. In tal caso egli non può rappresentare una realtà pervasa di emozioni, secondo i migliori dettami di Pitloo e dei pittori posillipisti, ma deve ricercare la bella composizione, con gli elementi naturali disposti in maniera scenografica, non necessariamente seguendo la loro vera disposizione. Un lavoro condotto in studio, con l’ausilio degli appunti presi dal vero: così querce e pini si collocano sui lati a mo’ di quinte sceniche, la roccia e l’agave si rivelano ingredienti tipici del repertorio di Gonzalvo e la stessa descrizione dell’arco del golfo presenta delle forzature per meglio evidenziarne dei punti. E ad animare questa scenografia si muovono animali e cacciatori, ben descritti come sapeva fare Carelli. Dipinti di questo genere sono tipici di quegli anni e risentono del gusto classicheggiante, ispirato a Claude o a Poussin, approfondito tramite la conoscenza dei paesaggisti francesi.

 

Renato Ruotolo

 

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