Giuseppe Sanmartino, attribuite a

(Napoli 1720 – 1793)

Coppia di figure cinesi: donna allo specchio, uomo con specchio e maschera

1770 circa

Marmo scolpito con parti dorate a foglia, h cm 80

Provenienza: San Giorgio a Cremano, Napoli, Villa Bruno; Roma, collezione famiglia Bruno

 

 

Queste due singolari statuette in marmo – raffiguranti due personaggi che per i tratti somatici, le acconciature e l’abbigliamento sono riconducibili a quello che un tempo era chiamato ‘Celeste Impero’, rientrano nell’articolata categoria delle chinoserie. Entrambi indossano abiti bordati da dorature a foglia; la donna ha il capo reclino, come a guardarsi nello specchio impugnato dall’uomo, il quale con la sinistra regge una maschera, anch’essa dorata. Ma non si tratta di opere di generica imitazione di un Oriente, anche vagamente indefinito geograficamente, appartenenti a un’epoca in cui erano in pochi a essere in grado di distinguere cosa fosse cinese, indiano o ‘turchesco’. La loro fattura particolarissima rivela la preponderanza della personalità di un autore che ‘interpreta’ a suo modo un semplice riferimento iconografico, desunto da una stampa o da una stoffa dipinta.

Ma cerchiamo ora di restringere la visuale: quando nel 1992 Elio Catello mise insieme tutte le informazioni fin lì note sulla diffusione a Napoli delle cineserie e della turcherie – poiché in pratica fino agli anni Settanta del ‘900 gli studi si erano concentrati solo sul brano più noto e prestigioso, il Salottino in porcellana di Maria Amalia di Sassonia, realizzato per la reggia di Portici e ora a Capodimonte; e sulle ville borboniche di Ercolano e Palermo, per quanto considerate come manifestazione estremamente tardiva di questo gusto – ci si accorse che anche nella capitale prima vicereale poi borbonica, il fenomeno era stato rilevante, benché di un lungo arco di tempo comprendente quasi tutto il Seicento e la prima parte del secolo successivo non restassero in pratica reperti identificabili. Seppure al fuori delle rotte delle varie Compagnie delle Indie inglesi, olandesi e francesi, il porto di Napoli era collegato ai principali scali di quelle nazioni, oltre che, ovviamente, a quelli spagnoli, da una fitta rete di commerci e transiti navali, gestiti da mercanti autoctoni e ‘stranieri’ che solo di recente si è iniziato a ricostruire. In questo modo già allo scadere del primo trentennio del Seicento la presenza di oggetti orientali si diffonde a Napoli e nel giro di un altro quarantennio la loro attestazione negli inventari di quei mercanti e di altri ricchi borghesi diventa costante, per poi propagarsi nelle raccolte aristocratiche divenendo una vera e propria moda allo scadere del secolo. Sarà tuttavia l’insediamento di Carlo di Borbone sul trono nel 1734, l’apertura dei rapporti diplomatici con la ‘Sublime Porta’ nel 1741 e l’avvio della Real Fabbrica di Capodimonte nel 1743 a incrementare una produzione di oggetti ‘orientali’ di cui si troverà traccia anche negli ambienti religiosi.

Non ostante sia considerato sovente ‘datato’, in quanto eccessivamente ‘positivista’ e privo di criteri ‘globali’, il metodo dello storico dell’arte Giovanni Morelli (1816-91) – che proponeva una tecnica di indagine attraverso dettagli (orecchie, mani, pieghe delle vesti, ecc.) in grado di rivelare la mano di un artista rispetto a quella dei suoi imitatori – resta di riferimento, soprattutto per le sculture, in quanto a volte più difficilmente decifrabili di un quadro.

E torna utile nel nostro caso perché sono proprio alcuni dettagli a indirizzarci verso l’autore di queste opere: se si raffrontano infatti i dettagli delle mani della figura femminile con quelle dell’Allegoria della Carità (1757-58, Napoli, chiesa della certosa di San Martino), o quelle dell’Angelo reggifiaccola (1756-58 circa, Napoli, chiesa di Santa Maria di Caravaggio), o, ancora, con quelle della più tarda Allegoria dell’Abbondanza (1770-71, Martina Franca [Taranto], collegiata di San Martino), si può agevolmente osservare una totale identità di concezione disegnativa e di modellato. Le dita morbide e affusolate si piegano, e a volte si sovrappongono, con la medesima grazia civettuola che accomuna i loro possessori, si tratti di figure angeliche o allegoriche o anche sacre. Altri agevoli raffronti sono possibili esaminando la qualità nel modellare la piegatura della testa, sempre nella figura femminile con i volti dei Cherubini che e affiancano e coronano il tabernacolo della chiesa della Nunziatella (1757-58), un tempo Noviziato dei gesuiti; o con la testa dell’Angelo reggifiaccola (Maddaloni [Caserta], chiesa di San Francesco). Tutte le opere chiamate a raffronto sono documentate al maggior scultore napoletano, e tra i principali in Italia, del secolo: Giuseppe Sanmartino (1720-1793). Artefice dal virtuosismo tecnico trascendentale, nel primo significato del termine: che supera la realtà, lo scultore è stato oggetto di numerosi studi monografici (si veda almeno la bibliografia acclusa allo studio di Elio Catello del 2004), benché al momento non esista un catalogo ragionato della sua produzione che, come è noto, ha riguardato anche il più napoletano dei ‘generi’, cioè il presepe. Per quanto le opere a lui attribuite in questo ambito, benché non poche, spesso pecchino di assegnazioni ‘amatoriali’, e solo parte di esse può dirsi effettivamente di sua mano, staccandosi dalle imitazioni per l’altissima qualità del modellato e delle finiture cromatiche; e tuttavia restando non agevolmente collocabili nell’arco della lunga attività di Sanmartino se non, quando possibile e con una forbice larga, comparandole con le opere in marmo.

Nelle sculture in discussione sono possibili comparazioni anche con opere sanmartiniane di questo tipo: se osserviamo alcuni tratti della Figura di donna come il disegno del naso e delle labbra dischiuse, o la modalità di rendere i capelli raccolti dietro la testa come se l’autore stesse modellando la cera e non scolpendo, possiamo confrontarli – due citazioni tra varie possibili – con la Giovane donna (Napoli, Museo Nazionale di San Martino), o con l’Angelo (collezione privata), opere entrambe di consolidata autenticità, e che mi sembra contribuiscano a supportare l’attribuzione allo scultore. E lo stesso discorso vale per il confronto tra i tratti della Figura di uomo e quella del Mandriano (collezione privata), opera ben nota agli studi; laddove anche dettagli apparentemente secondari, come la curva del mento, appaiono del tutto analoghi.

Anche qui valgono considerazioni fatte in precedenza e cambiando il sesso del protagonista mutano le modalità di disegno e di resa delle mani: troviamo quindi nella Figura di uomo le stesse dita costruite come se le falangi fossero una sequenza di parallelepipedi, proprio come si può osservare – anche qui un esempio tra molti – nella mano di San Paolo (1760, Napoli, chiesa di San Giuseppe dei Ruffo). In queste statuette – tra l’altro di un formato del tutto insolito nelle vicende della scultura a Napoli nel ‘700 – i panneggi risultano più semplificati rispetto a quelli che abitualmente avvolgono le sculture sanmartiniane, ma la loro resa solo apparentemente sintetica – c’è una certa differenza tra quelli della donna e quelli dell’uomo, come se nella prima lo scultore avesse voluto ‘approfittare’ della possibilità di usare uno scialle per uno svolazzo –  penso sia da ricondurre al soggetto e al formato. Mentre la patina semilucida, che ritengo originale, tenta forse di imitare l’avorio. Un discorso a parte riguarda le ipotesi sull’originaria destinazione delle statuette. Tuttora in corso, la ricerca cercherà di stabile, anche in considerazione dell’importanza dell’autore, definito nel 1775 «il primo scultore di questa Capitale», restringendo il campo a alcuni luoghi specifici – le residenze borboniche di Ercolano e di Portici, dove tuttora persistono ambienti decorati da cineserie – e verificando sugli antichi inventari la presenza o meno di oggetti a questi in esame riferibili. Senza trascurare un’ulteriore, praticabile, ipotesi che riguarda un luogo, casa di uno degli ordini più rigidamente ascetici e in cui è del tutto insospettabile la presenza di decori ‘alla  moda’, come la certosa di San Martino, dove esistono ancora due sale, un tempo afferenti al ‘Quarto del Priore’, le cui volte sono riccamente ornate con chinoserie e turquerie e che sembra si stessero arredando con l’acquisto di porcellane, proprio negli anni in cui Sanmartino era all’opera nella loro chiesa (1757-58).

Gian Giotto Borrelli

 

 

Riferimenti bibliografici:

Elio Catello, Cineserie e turcherie nel ’700 napoletano, Sergio Civita Editore, Napoli 1992.

Elio Catello, Giuseppe Sanmartino, 1720-1793, Electa Napoli, Napoli 2004.

 

Bibliografia

J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nellarte, Longanesi & C., Milano 1983.

G. Mendola, Nuovi documenti per Van Dyck e Gerardi a Palermo, in 1570. Porto di mare. 1670. Pittori e Pittura a Palermo tra memoria e recupero, catalogo della mostra (Palermo, 30 maggio-31 ottobre 1999), a cura di V. Abbate, Electa Napoli, Napoli 1999, pp. 88-105.

X. Salomon, Van Dyck in Sicily: 1624-1625 painting and the Plague, catalogo della mostra (Dulwich Picture Gallery-London, 15 febbraio-27 maggio 2012), Silvana editorial, Cinisello Balsamo, Milano 2012.

B. De Dominici, Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani, III [1742], ed. cons. a cura di F. Sricchia Santoro e A. Zezza, Paparo Edizioni, Napoli 2008, III, pp. 1182-1183.

Katharina Dohm, Claire Garnier, Laurent Le Bon, Florence Ostende (a cura di), Dioramas, catalogo della mostra, Palais de Tokyo, Parigi, 14 giugno – 15 settembre 2017, ill. p. 22.

 

 

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