François-Marius Granet

Aix-en-Provence 1775 – 1849

Interno del Colosseo • 1802 ca.

olio su tela, 99 x 75 cm

Da sempre gli artisti hanno celebrato la maestosa bellezza del Colosseo, l’anfiteatro romano costruito durante l’impero di Tito (79-81).

Da sempre molte vedute dipinte riflettono la fascinazione di quella grandiosa struttura ellittica, i fornici imponenti, i tre ordini di logge, la sequenza solenne delle arcate.

Incantevole e irripetibile è l’inquadratura scelta da Granet, “testimone precoce di una sensibilità romantica quando ancora l’Europa era permeata di razionalità illuminista”. Il giudizio è quello di un grande storico della cultura francese, Marc Fumaroli.

Perfettamente conservato in prima tela, il dipinto raffigura uno scorcio del Colosseo come appariva nei primissimi anni dell’Ottocento. Granet infatti ci consegna l’immagine suggestiva dell’anfiteatro prima che a Roma, nel 1809, la Prefettura napoleonica avviasse gli scavi delle zone interrate e la demolizione delle sovrastrutture cresciute nei secoli e prima che papa Pio VII (rientrato in città nel 1814 dopo essere stato, per quasi cinque anni, prigioniero dei francesi) promuovesse un programma di restauri, integrazioni e recuperi destinato a durare due secoli.

La particolarità di questa veduta è dunque anche quella di ritrarre il Colosseo prima della “profanazione” dell’archeologia (così scriveva Granet), in altre parole prima che l’intervento di ingegneri e archeologi cancellasse per sempre la misteriosa bellezza del rudere invaso dalla vegetazione.

“Il Colosseo mi aveva colpito sia per la forma architettonica che per il verde che avvolgeva le rovine e produceva un effetto incantevole contro il cielo … Si vedono crescervi sopra le violacciocche e l’acanto con quelle bellissime foglie dentellate e il caprifoglio e le viole … Ci sono gallerie ombrose e chiazze di luce così seducenti che qualunque pittore non potrà resistere al desiderio di farne degli studi” (Granet, Mémoires, 1872, cap. V)[1].

In questo scorcio antieroico, lontano dagli stereotipi monumentali del Colosseo, l’artista coglie le variazioni cromatiche di una visione apparsa in un luogo non ancora bonificato dagli archeologi né scarnificato dai diserbanti.

Di un rudere tante volte dipinto, l’artista restituisce l’incanto attraverso l’originalità degli scorci, l’erosione della forma per via della luce e una pittura fluida e tonale.

L’immagine dell’Antico e di Roma non è più forse, ai nostri occhi, la stessa dopo l’incontro con la poesia minimale dei luoghi come li ha rivelati Granet.

I suoi studi, disegni, dipinti (a olio su carta e, più rari, a olio su tela) scartano le inquadrature dell’arena ripresa dall’esterno. Il pittore ha sistemato il cavalletto all’interno, sfruttando la cornice scenografica delle arcate, la distanza ravvicinata delle rovine, l’intreccio simbiotico di architettura e natura; come lui stesso ricorderà, a distanza di anni, nel suo breve ritorno nella città molto amata di Roma (1829): “Sono corso al Foro e al Colosseo; ho salutato quei marmi con sacro rispetto, ma ho biasimato gli uomini che hanno avuto l’ardire di mettere le loro mani profane su queste belle pietre che la natura , con la sua grazia, aveva ornato di fiori e ghirlande, come se avesse voluto tessere delle corone agli architetti e ai prìncipi che le avevano innalzate” (Granet, Mémoires, 1872).

Quanto al metodo di lavoro, Granet contempla la possibilità di replicare un bozzetto eseguito dal vero (Pioppi visti da un’arcata del Colosseo, Aix-en-Provence, Musée Granet) all’interno di una composizione più vasta e complessa (Monaci fra le rovine del Colosseo, New York, Collezione Roberta J. M. Olson)[2], oppure di produrre variazioni su un medesimo impianto scenico, come nel caso di questo Interno del Colosseo. La stessa inquadratura si ritrova infatti, su scala ridotta, in una tela meno lirica e più aneddotica, dove sono state inserite piccole figure e modificati gli effetti di luce (Les ruines du Colisée animées de personnages[3]).

Pittore di storia e di paesaggio, François-Marius Granet, “cet enfant gâté de la peinture”, nasce a Aix-en-Provence nel 1775. La sua è la storia di un riscatto sociale – origini proletarie, terzo di sette figli, il padre capomastro – scandito dall’amicizia fraterna con il conte Auguste de Forbin (1777-1841), suo mecenate, gran signore della Provenza, viaggiatore, mondano, eppure così attratto dal mite, introverso Granet. Era stato Forbin a chiamare a Parigi Granet (1796), permettendogli di studiare al Louvre i maestri fiamminghi e olandesi e ottenere l’ammissione al richiestissimo atelier di Jacques-Louis David, dove nel 1798 riuscì a fare entrare l’amico. Una permanenza decisiva – come per altri pittori di paesaggio, da Simon Denis a Christoffer Wilhelm Eckerberg – per quel lungo esercizio di semplificazione, condotto dal vivo sopra il modello, che è all’origine della struttura essenziale dei paesaggi di Granet. Il quale aveva un’autentica vocazione cromatica che stemperava il rigore della struttura: “il sent la couleur”, aveva detto profetico David. Lo conferma questo dipinto, impronta colorata e materica, frammento ritagliato dal vero, quasi senza disegno.

“Tutti gli artisti che avevano fatto il viaggio a Roma parlavano della città con tale entusiasmo che il mio desiderio di andarci si fece grandissimo” (Granet, Mémoires, 1872 ).

Così, anche Granet fece il suo ingresso a Roma, entrando da piazza del Popolo nell’estate del 1802. Roma sarà per l’artista la città di elezione per un lungo tempo della sua vita, dal 1802 al 1824.

La grandezza di Granet, pittore di storia e pittore di paesaggio, sta anche nell’aver vissuto due vite artistiche parallele e diverse e avere segnato due capitoli della pittura, che debbono entrambi al suo estro la loro moderna scrittura figurativa.

Celebrato come “peintre des capucins” conteso da committenti importanti (Carolina Murat, il cardinale Joseph Fesch, il principe Francesco Borghese Aldobrandini) e stimato da Ingres, Camuccini, Canova, Granet è stato l’interprete precoce di quel desiderio di armonia e di silenzio che seguiva i furori della Rivoluzione francese. I suoi chiostri conventuali e i suoi interni di chiese silenti – dipinti a Roma, Assisi, Subiaco – esaltano la religiosità delle origini, in controcanto al misticismo neomedievale di Chateaubriand che nel 1802 aveva pubblicato il Génie du Christianisme. La misura del successo è data dal Coro dei Cappuccini, un dipinto del quale l’artista produsse quattordici repliche.

Allo stesso modo Granet ha un ruolo di primissimo piano nel dipingere sur nature, più moderno di Nicolas-Didier Boguet, più audace nei tagli di Jean-Joseph-Xavier Bidauld, più rarefatto e essenziale di Simon Denis, più trasgressivo di Pierre-Athanase Chauvin.

Tra Valenciennes e Corot, l’artista si colloca dunque quale figura trainante del primo plein air: per la capacità di sottrarre un frammento visivo e regalarci ‘istantanee’ senza tempi di posa, per quella vena di malinconia già romantica, espressa da Chateaubriand e per quel suo essere così intensamente pittore nello sfaldare la forma e il colore[4].

Anna Ottani Cavina

[1] Mémoires du peintre Granet, “Le Temps”, 28 septembre-27 octobre 1872, a cura di L. Halévy , p, 11 (il manoscritto autografo, pubblicato postumo, è conservato nel Musée Arbaud di Aix-en-Provence).

[2] A. Ottani Cavina, Paysages d’Italie, catalogo dell’esposizione, Paris, Grand Palais 2001, p. XXXII, figg. 12, 13.

[3] La piccola tela (41×33 cm) è comparsa all’asta da  Artcurial   23 marzo 2022, lot 146.

[4] Il ruolo di protagonista avuto da Granet, alle origini della pittura en plein air in Italia, è testimoniato da una serie di esposizioni monografiche che gli sono state dedicate di recente: Aix-en-Provence, Musée Granet 1984; New York, Frick Collection 1988; Roma, American Academy 1996; Roma, Palazzo Altemps 2000; Parigi, Grand Palais – Mantova, Palazzo Te 2001; Parigi, Louvre 2006; Roma, Villa Medici 2009.

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