Stefano Tofanelli - Christopher Hewetson davanti al monumento di Richard Baldwin

Stefano Tofanelli - Christopher Hewetson davanti al monumento di Richard BaldwinStefano Tofanelli
(Nave/Lucca 1752 – Marlia/Lucca 1812)

Christopher Hewetson davanti al monumento di Richard Baldwin

Olio su tela, cm. 98 x 72

Il dipinto, recentemente passato in asta come anonimo (Finarte 2000, n.120), è da riferire alla mano di Stefano Tofanelli.
Vi è rappresentato il Monumento funebre di Richard Baldwin che lo scultore irlandese romanizzato Christopher Hewetson (1736-1798) aveva realizzato nella città pontificia tra il 1772 e il 1781, inviandolo due anni dopo in patria dove nel 1784 venne messo in opera nel “Theatre” del Trinity College di Dublino (cfr.Hodgkinson 1952-54, pp.45-46; Ingamells 1997, pp.494-495).
L’attribuzione è confermata dalle fonti: nelle note manoscritte recentemente pubblicate da Roberto Giovannelli e redatte probabilmente dal fratello di Stefano Agostino, che in questo modo aveva voluto integrare le notizie pubblicate da Tommaso Trenta nella biografia del pittore (cfr.Trenta 1822), si legge: “Ckristophorus Heweston inglese [irlandese] e celebre scultore amico di [Stefano gli fece dipingere] a chiaroscuro un deposito [che egli aveva fatto] in marmo [che riuscì] migliore [dell’originale]” (Giovannelli 1992-93, p.427). La nota proseguiva sottolineando i rapporti di stretta amicizia che legava i due con Gavin Hamilton – per il quale Tofanelli eseguì dipinti destinati al mercato inglese ereditandone nel 1787 il celebre studio in Via dei Greci, dove insediò la sua frequentatissima accademia privata del nudo – suggellata dal Ritratto di Christopher Hewetson con il busto di Gavin Hamilton (Wallraf-Richartz Museum, Colonia).
La circostanza che nel dipinto qui presentato il gruppo statuario collocato sul sarcofago sia una mirabile prova di “chiaroscuro”, come afferma la fonte, permette di identificare l’opera con quella citata.

Il monumento di Hewetson, ritrattista di fama internazionale impiegato dai mecenati europei come dai viaggiatori impegnati nel Grand Tour, era tra le piĂą insigni opere di scultura realizzate al tempo, prima dei sepolcri pontifici canoviani. La sua novitĂ  aveva colpito lo stesso Canova (cfr.Honour 1959, p.244) e il “Giornale delle Belle Arti” del 1787, recensendolo dopo una prima segnalazione del 1784, ne aveva elogiato la “semplicitĂ  di composizione, correzione di disegno, e gusto grandioso ne’ panneggiamenti” uniti a un’ “imitazione dell’antico senza caricatura” (cfr. “Giornale delle Belle Arti” 1787, p.136).
Contro il fondale della piramide di granito rosso orientale il defunto è collocato giacente, panneggiato all’antica, mentre trattiene con la mano sinistra il testamento con il quale avrebbe beneficato l’Università di Dublino, da lui presieduta. Nel momento estremo della sua esistenza una Musa della Scienza lo sostiene lamentandone l’imminente scomparsa, mentre un Angelo gli indica nella corona di palma e ulivo la promessa di ricompensa ultraterrena per la sua virtù.
Il dipinto di Tofanelli in qualche modo costituiva una risposta alle doglianze espresse dalle “Memorie” per la partenza di un simile capolavoro plastico dal luogo che l’aveva prodotto, trattenendone a Roma almeno una testimonianza visiva. Era inoltre un tributo al culto illuminista degli uomini illustri che aggiornava la tradizione che voleva le celebrità britanniche eternate dai maggiori pennelli italiani, com’era avvenuto nella prima metà del secolo con i sepolcri allegorici dipinti su commissione di Owen McSwiny da Canaletto, Piazzetta, Ricci e pubblicati nel 1741 (cfr.Haskell 1985, pp.438 e ss.).
Dipinto verso il 1783, quando il lavoro ormai compiuto stava per essere imbarcato alla volta della sua destinazione definitiva, il quadro può essere considerato emblematico di un punto di snodo della pittura neoclassica. Nel suo serrato dialogo tra pittura e scultura sottolinea le comuni istanze per un rinnovamento del linguaggio figurativo sulla base di un’imitazione razionale della natura e un più filologico recupero dell’antico. Ma testimonia anche il cosmopolitismo della situazione romana che di lì a poco avrebbe prodotto le sintesi esemplari di Canova e David.

Proprio con la tela degli Orazi del pittore francese, del 1784, il dipinto di Tofanelli trova significative convergenze: nella severitĂ  della costruzione geometrica dello spazio, dominata dalla simmetria e programmaticamente aliena da virtuosismi prospettici – lo scorcio del monumento viene però disegnato nel progetto che una delle due figure in primo piano, identificabile con certezza in Hewetson, mostra all’interlocutore – e in una luce laterale che costruisce i volumi e indaga una realtĂ  restituita nitidamente dal rigore disegnativo.
Il brano di monocromo testimonia l’eccellenza grafica del lucchese, costantemente impiegato dagli incisori contemporanei per il disegnod’après, mentre la sobrietà della gamma cromatica, in grado comunque di emulare la policromia dei marmi, conferma la datazione proposta, prima cioè di quel viaggio in Lombardia e Veneto compiuto nel 1786 per migliorare e arricchire la tavolozza sull’esempio di quelle scuole pittoriche.
Ricollocato nel catalogo dell’artista, il dipinto avvalora il giudizio sul suo linguaggio pittorico formulato dal Clark a proposito della sua produzione ritrattistica e in particolare dell’Autoritratto con il fratello Agostino, il padre Andrea e il ritratto ovale di Bernardino Nocchi del 1783 (Roma, Museo di Roma), considerato tra i più avanzati, non solo nella Roma cosmopolita, a quelle date (cfr.Clark 1981, p.140; Rudolph 2000).
Rimane da sciogliere l’interrogativo circa l’identità del personaggio rappresentato accanto a Hewetson in atto di commentare il monumento. L’abito “alla pittoresca” e la compatibilità con gli autoritratti di Tofanelli induce a ritenere che egli abbia voluto rappresentare se stesso, coerentemente alla propria strategia di autorappresentazione nella cerchia delle proprie frequentazioni artistiche o erudite, come nell’altro ancora irrintracciatoAutoritratto con l’abate Giovinazzi, l’incisore Magalli, padre Casini e monsignor Gualtieri.

Stefano Grandesso

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