Luigi Manfredini

Bologna 1771 – Milano 1840

Antonio Manfredini

(?) – Milano 1838

Tripode reggicatino • 1811-14

Bronzo dorato e lapislazzuli, 80 x 39 cm

Catino in bronzo dorato moderno

Il tripode, concepito come supporto per un catino, fa parte di un gruppo di arredi di uguale forma e dimensioni usciti, a partire dal 1811, dall’allora fiorente manifattura di bronzi dorati fondata nel 1806 a Milano dai fratelli Francesco (morto nel 1810), Luigi (1771 – 1840) e Antonio (morto nel 1838) Manfredini. Originari di Bologna, i Manfredini si trasferirono nel capoluogo lombardo chiamati dal viceré Eugenio di Beauharnais dopo aver lavorato a Parigi dal 1803, dove Luigi aveva aperto un laboratorio di “Bigiotteria, d’indoratura dei metalli e d’orologeria”.

Fin dal 1786, allorché Pietro Paolo De Giusti redasse il suo piano di riforma generale dell’Accademia di Brera, era stata infatti prevista a Milano la costituzione di una scuola di “Gitto in bronzo” da affidare alle cure del mantovano Giuseppe Bellavite. Tale proposta, che avrebbe dovuto resuscitare un’arte per cui Milano era andata famosa durante il Rinascimento, non fu però tradotta in pratica e solo vent’anni dopo, grazie ai buoni uffici del governo francese, il progetto di De Giusti trovò una sua applicazione con l’apertura del laboratorio dei Manfredini. A Milano, i bronzisti concepirono la loro industria come una moderna scuola in cui formare le nuove generazioni d’artigiani secondo il volere del viceré Eugenio di Beauharnais, dal quale la nuova manifattura prese il nome di ‘Stabilimento dell’Eugenia’ o anche ‘della Fontana’. Il sovrano, infatti, oltre ad avergli concesso la nomina di “Orologiere del Re”, aveva decretato di destinare quale sede per la fonderia gli ambienti del “Regio locale della Fontana in Milano” da dove uscirono – come ebbe a scrivere un anonimo recensore nell’ ‘Appendice Critico – Letteraria’ della ‘Gazzetta di Milano’ del 9 novembre 1819 (n. 313)  – “lavori, da non farci più invidiare ai paesi stranieri le squisite cesellature in metallo, la lucidezza e il finito degli smalti, lo splendor delle dorature, e nel tempo istesso la purità del disegno in ogni particolare, unita ad un’eleganza ch’era fra noi conosciuta soltanto per le produzioni dell’industria ingegnosa che ci venivano dall’estero” poiché oltre “ad ogni articolo d’oreficeria abbiamo veduto uscire dalla manifattura Manfredini mobiglie d’ogni genere, composte di legni più rari e fabbricate con tale maestria da sostenere il confronto dei più pregiati lavori d’Inghilterra e di Francia”.

I prodotti usciti dalla fonderia, a quanto si rileva dai cataloghi delle esposizioni e dalle coeve recensioni, erano per lo più orologi, candelabri, centrotavola, bracci per candele, interi finimenti per altare, impugnature di spade, statue, vasi e, non ultima, la fortunata serie di tripodi inaugurata con l’esemplare eseguito nel 1811 e conservato nella Schatzkammer di Vienna (Fig. 1). Si tratta di un modello di portacatino la cui forma dei sostegni bronzei fu ripresa dal tripode scoperto a Pompei (fig. 2) allora visibile nel Museo di Portici e la cui immagine – che godette di una larga fortuna tra la fine del Settecento e i primi decenni del secolo seguente – fu diffusa attraverso un’incisione di Piranesi pubblicata nel 1778 nel suo repertorio Vasi, candelabri, cippi, sarcofagi, tripodi, lucerne, ed ornamenti antichi  (fig. 3) per poi essere copiata anche dal bronzista romano Luigi Righetti (fig. 4) entro il 1816 per un analogo arredo fornito alla corte di Napoli  (reso noto da A. Gonzàlez – Palacios, Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismo e barocco. Roma e il Regno delle Due Sicilie, Milano 1984, p. 141, figg. 276 – 277).

Sfortunatamente del tripode di Vienna, firmato all’interno “INVENTATO ED ESEGUITO DAI FRLI MANFREDINI NELLA RA MANIFRA DELLA FONTANA NELL ANNO 1811” non si conosce la provenienza, così come non si conosce il destino di quello eseguito in argento e citato da Achille Viscardi nel suo Discorso pronunciato nella festa della Mutua Società Operaja Manfredini in occasione dell’inaugurazione del busto in rame battuto a Luigi Manfredini titolare della Società, l’8 Febbraio 1880. L’autore, redigendo una prima storia completa della manifattura, asserisce infatti che fin dall’inizio del secolo la stampa estera non aveva omesso di recensire con lode un “grandioso Tripode di argento dorato, il quale uscito dallo Stabilimento MANFREDINI era stato ammesso nel Settembre 1813 a decorare l’appartamento più cospicuo della Corte di Francia”. Questo tripode, “presentato a Maria Luigia da ANTONIO MANFREDINI per ordine del Principe Eugenio” si trovava, alla data della pubblicazione del testo di Viscardi, a Parma probabilmente portatovi da Maria Luigia stessa.

Sempre Viscardi ci informa che verso la fine dell’Ottocento egli era a conoscenza di ben “quattro tripodi in bronzo dorato guarniti in lapislazzoli e due in bronzo a verde antico” allora “esistenti nella Real Corte di Baviera” la stessa dove Eugenio di Beauharnais e la sua consorte Augusta di Baviera, figlia di Massimiliano I, trovarono rifugio dopo l’abdicazione avvenuta il 26 aprile 1814. A Monaco gli ex sovrani si fecero costruire un palazzo dove disporre le loro collezioni d’arte e non è escluso che nelle sale della nuova residenza trovassero posto anche alcuni dei tripodi citati da Viscardi, successivamente dispersi dai figli. Questi ultimi contrassero matrimoni con le maggiori case regnanti d’Europa, tra le quali anche quella dei Romanoff, poiché Massimiliano Beauharnais (1817 – 1852), l’ultimo dei sette figli della coppia, sposò una delle figlie dello zar Nicola I. E proprio nel palazzo di Pavlosvsk si trova una delle repliche del tripode portacatino con inserti in lapislazzuli (fig. 5), mentre un altro esemplare uguale (datato al 1813) era conservato in Inghilterra e per un certo periodo fu esposto al Victoria and Albert Museum, per poi essere battuto all’asta Christie’s del 7 luglio 2011 (fig. 6).  Dei due descritti “in bronzo a verde antico” si conosce solo una replica (fig. 7) conservata nel Musée Massena di Nizza (pubblicato da A. Ponte, 1780 – 1820, in C. Paolini, A. Ponte, O. Selvafolfta, Il bello ritrovato. Gusto, ambienti, mobili dell’Ottocento, Novara 1990, p. 29) che però, pur riprendendo le forme dei citati esemplari in bronzo dorato, non presenta gli inserti in lapislazzuli e neppure il fastoso catino (fu infatti concepito come bruciaprofumi) così descritto, sempre nel citato articolo del 1819:

“Altro dei recenti lavori dei fratelli Manfredini è un tripode con catino in bronzo dorato e lamina d’oro. Un triangolo coperto di lapislazzoli gli serve di base. Il tripode di forma lodatissima, è precisamente imitato dal famoso del museo di Portici, scavato in Ercolano. Credo inutile il descriverlo perché e già troppo noto, e si riguarda come uno dei più eleganti e preziosi resti dell’antichità. Il portacatino è rivestito di lapis-lazzoli come la base. Il catino ha nel centro del fondo concavo una medaglia rappresentante Nettuno e Venere sopra un carro tirato da cavalli marini, sulle pareti interne veggonsene altre sei ovali che indicano i sei principali fiumi d’Italia, Po, Arno, Tevere, Mincio, Ticino e Reno. Queste si collegano insieme con un ornato continuato a basso rilievo, rappresentante Sirene, Najadi, Delfini ecc. ecc. Sull’orlo o margine di questo catino veggonsi altre medaglie, rotonde anch’esse e a basso rilievo, le quali offrono allo sguardo le immagini delle primarie Deità mitologiche, ed anche queste si uniscono con un ornato che rappresenta diversi Zeffiri. In questo capo d’opera non saprei se fosse più da lodare l’eccellenza del disegno o la finezza del lavoro, è certo che l’uno e l’altro non potrebbero essere più perfetti, e che questo mobile sarebbe unico nei lavori moderni, se non fosse già stato preceduto da un simile che gli stessi fratelli Manfredini eseguirono alcuni anni fa per servir d’ornamento al gabinetto d’una augusta principessa”.

Tale descrizione collima con le raffigurazioni presenti nei catini dei due tripodi di Vienna e del Victoria and Albert (fig. 8). Hans Ottomeyer, analizzando il tripode di Vienna, riporta la notizia che un bacile uguale a quello presente nel tripode della Schatzkammer si trovava elencato nell’eredità del re di Baviera Massimiliano I e che esso proveniva da Milano come dono del genero Eugenio di Beauharnais. Si potrebbe supporre, alla luce di quanto riportato dallo studioso, che lo scomparso catino fosse parte integrante del nostro tripode, oggi in effetti mancante di questo accessorio. Ciò indurrebbe a pensare che il presente arredo facesse parte di quei quattro esemplari citati da Viscardi nella corte di Monaco dei quali uno potrebbe essere identificato in quello ora a Pavlovsk, oggi trasformato in un tavolino con l’aggiunta di un piano di marmo, e l’altro nel tripode già al Victoria and Albert.

La ditta dei fratelli Manfredini, ai quali si affiancò nel 1823 Giovan Battista Viscardi, fu operosa per gran parte del XIX secolo fornendo bronzi dorati oltre che alle principali famiglie milanesi anche per la corte piemontese, divenendo uno stabilimento conosciuto in tutta Europa soprattutto per la produzione di elaborate casse per orologi e per il fortunato modello del tripode portacatino che ancora nel 1832 veniva menzionato con lode da Defendente e Giuseppe Sacchi nel loro autorevole almanacco dedicato a Le Belle Arti e L’industria. I fratelli infatti ebbero modo di vedere due dei menzionati “tripodi per lavamano” asserendo che il loro modello, imitante “la forma di antiche are”, era di un tale “squisito disegno ed una esatta esecuzione” che potevano ritenersi eseguite nei “bei tempi di Pericle”.

Nota bibliografia:

Durante la prima parte dell’Ottocento si possono trovare notizie sulla Fonderia Manfredini nei cataloghi delle Esposizioni d’industria tenutesi a Milano dal 1805 e nelle recensioni apparse sulle riviste cittadine.

Il primo a redigere una vera e propria storia della manifattura e dei suoi fondatori fu Achille Viscardi nel suo Discorso pronunciato nella festa della Mutua Società Operaja Manfredini in occasione dell’inaugurazione del busto in rame battuto a Luigi Manfredini titolare della Società, l’8 Febbraio 1880, edito in quello stesso anno.

Ma è solo a partire dalla fine del secolo scorso che gli studi sui Manfredini si sono susseguiti con una certa frequenza a partire da F. Mazzocca, Le esposizioni d’Arte e Industria a Milano e a Venezia (1805 – 1848), in “Quaderni del seminario di storia della critica d’arte”, 1, Pisa 1981, p. 87 e da A. Gonzàlez – Palacios, Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismo e barocco. Il Granducato di Toscana e gli Stati settentrionali, Milano 1986, p. 257, seguito da H. Ottomeyer P. Proschel, Vergoldete Bronzen, Die Bronzenarbeitendes spatbarok und Klassizismus, Munchen 1986 p. 402, n. 5.19.1.

In tempi più recenti E. Colle si è occupato a più riprese dei prodotti usciti dalla Manifattura Manfredini nei seguenti contributi: Pelagio Palagi e gli artigiani al servizio della corte sabauda, in ‘Arte a Bologna bollettino dei musei civici d’arte antica’, 1999, 5, pp. 58 -109; nelle schede delle opere pubblicate in E. Colle, A. Griseri, R. Valeriani, Bronzi decorativi in Italia. Bronzisti e fonditori italiani dal Seicento all’Ottocento, Milano 2001, pp. 286 – 291; 350 e ss.; nel saggio Le arti decorative, in F. Mazzocca, A. Morandotti, E. Colle, Milano Neoclassica, Milano 2001, pp. 559 – 563 e nel catalogo Bronzi dorati, in Musei e Gallerie d’Italia. Pinacoteca Ambrosiana, Milano 2009, Tomo V, pp. 398 – 404.

Ulteriori approfondimenti archivistici sono stati resi noti da B. Gallizia di Vergano, La manifattura dell’Eugenia dei fratelli Manfredini, In Gli splendori del Bronzo. Mobili e oggetti d’arredo tra Francia e Italia 1750 – 1850, catalogo della mostra, Torino 2002, pp. 27 – 43; Nuovi documenti per i Manfredini, in ‘Rassegna di Studi e Notizie del Castello Sforzesco’, 2002, pp. 239 -245; Le pendole di Palazzo Reale: un’ipotesi per i Manfredini, in ‘Rassegna di Studi e Notizie del Castello Sforzesco’, 2004, pp. 67 – 77; Candelabri per l’uso della Corte. Da Parigi a Milano, i primi anni di attività dello stabilimento dell’Eugenia, in ‘Rassegna di Studi e Notizie del Castello Sforzesco’,2010,  pp. 219 – 233.

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