A COLLOQUIO CON GIUSEPPE DUCROT

In questo percorso sulla scultura, dal Settecento a Ducrot, in cui la presenza dei dipinti in qualche modo testimonia la fortuna di quest’arte presso le altre e il suo primato tra Settecento e Ottocento con la figura di Canova, è curioso che che la tua opera, che chiude il volume, si colleghi formalmente a quelle iniziali all’insegna dello stile barocco.

Come vedi in questo itinerario il tuo rapporto con la tradizione, tema portante dei tuoi lavori?

Il mio approccio è di dialogo, senza problemi nell’affrontare dei rapporti specifici con il passato reso però contemporaneo. Il Carlo III si rifà a un quadro di Mengs. Da lì sono ripartito per rifarlo completamente.

La cosa che fa scattare il meccanismo è il processo di assorbimento, di fare mie delle cose che mi colpiscono. Qualsiasi composizione di un quadro o di una scultura, anche abbastanza anonima, porta il meccanismo per cui lo voglio far mio, lo voglio rielaborare. E non deve essere per forza differente. Ispirarsi a un oggetto è una grande libertà. Qualsiasi statua deve dire qualcosa, anche se è la replica di un’altra. Riuscire a dare vita a quella materia o no, questo è il discorso. L’originalità, o meno, viene in secondo piano. Tutta la storia dell’arte è fatta di ispirazioni tra artisti che guardano altri artisti.

Vivendo qui, in Europa e a Roma, è fisiologico guardare al contesto classico e barocco. Il senso classico del barocco è italiano. Il barocco è una forma d’arte che non ha mai smesso di esistere, prosegue a Napoli per automatismo fino a fine Ottocento, nella nostra tradizione non è mai finito e i suoi ultimi esempi sono i santini che utilizzavano ancora il linguaggio barocco. Anche alla fine dell’Ottocento si vede la fortuna del barocco, in Rutelli ad esempio.

 

Tra i lavori che presentiamo c’è quella continuità della tradizione in cui rientra secondo te anche il barocco?

Certo che c’è continuità, Greco utilizza il volume romano, presente anche nei primi busti di questa mostra, quelli di Cavaceppi. Il volume romano corrisponde ai piani larghi, cosiddetti di respiro, che alla fine dell’Ottocento, con il realismo, si vanno a perdere. Il volume largo è quando i piani hanno un respiro tra loro che ti riporta alla classicità del rapporto astratto con l’oggetto.

Il punto di rottura è il naturalismo, che abbandona l’idea classica e barocca del volume largo. La ritrattistica ti fa capire la matrice del linguaggio, come nel ritratto di Della Valle, con l’occhio romano, architettonico, con le virgole.

Rambelli ha una volumetria da paese socialista. Le sue sculture non sono fasciste, sembrano sovietiche, per i volumi pieni. La scultura fascista discende dal classico, romano e greco. In Unione Sovietica si rielabora l’elemento fotografico, schematizzato nelle ombre, nelle sfaccettature cubiste.

Leoncillo è un caso a parte. È interessante il suo iter. Per lui ho una predilezione, senti la sua capacità di improvvisazione, con alle spalle qualcosa di sperimentale e di anti-ideologico, importante in quel periodo. Senti una grandissima libertà. Nelle ultime opere astratte capisci che possono essere concepite da uno che proveniva da un discorso classico. Quelle opere astratte, con smalti e fuoriuscite di materia opaca hanno una carica classicista chiarissima. Tra le cose più belle che ha fatto. Hanno l’equilibrio cosiddetto latino nella distribuzione dei pesi, mai dinamiche.

Il ritratto di Messina è una vera invenzione, di forte personalità. Schiaccia le forme, allunga il collo finissimo, deforma verso l’alto la sagoma del cranio. Ha degli effetti pittorici e una patina straordinaria. Appartiene ai livelli massimi della sua ritrattistica, spenta poi negli anni Sessanta.