Fondatore della corrente Metafisica e tra i più originali ed innovatori artisti europei del Novecento, il pittore Giorgio De Chirico nasce a Volos, in Grecia, il 10 luglio 1888, e si forma studiando disegno al politecnico di Atene. Con la morte del padre avvenuta nel 1905 la famiglia si trasferisce dapprima per un breve periodo in Italia, poi dall’anno seguente a Monaco di Baviera, dove De Chirico frequenta i corsi dell’Accademia di Belle Arti. Nella città tedesca, al tempo crocevia culturale di importanza europea, il pittore frequenta i musei della città e si appassiona con sempre più trasporto alla statuaria classica, alla pittura romantica ma soprattutto rimane affascinato dal simbolismo visionario di Böcklin. Tra le prime prove del pittore figura infatti il dipinto rappresentante La partenza degli Argonauti (olio su tela, 1909 ca., Roma, collezione privata) in cui l’artista si confronta con un tema a lui caro, quello del viaggio e dell’abbandono. Dopo un breve soggiorno in Italia nel 1910, dove sosta a Milano e a Firenze, De Chirico si trasferisce nel 1911 a Parigi raggiungendo il fratello Andrea, anch’egli pittore – noto a partire dal 1914 con lo pseudonimo di Alberto Savinio. Qui insieme al fratello entra in contatto con l’ambiente avanguardistico capeggiato da Picasso e conosce Guillaume Apollinaire, che comprende la forza dirompente delle idee rivoluzionarie e indipendenti dell’artista e ne esalta la componente fortemente malinconica e mentale. Quando nel 1914 De Chirico espone al Salon des Indépendents riceve un’entusiastica recensione da parte del poeta francese, e sarà quest’ultimo a presentare i due fratelli all’influente mercante d’arte Paul Guillaume.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale i due fratelli tornano in Italia e si arruolano come volontari, stabilendosi a Ferrara, sede del XXVII reggimento di fanteria a cui vengono assegnati. Nella città emiliana Giorgio e Alberto conoscono Carlo Carrà, Filippo De Pisis e Giorgio Rea, che diviene dunque il luogo che catalizza le energie innovative del gruppo di artisti dove la pittura Metafisica può esprimersi nella sua totale, autonoma e completa presa di coscienza. Nel 1919 De Chirico si trasferisce a Roma dove presso la Casa d’Arte Bragaglia tiene la sua prima personale, finché nel 1924 non conosce la ballerina Raissa Calza e si trasferisce con lei a Parigi, dove esegue molti ritratti dell’amata, tra cui Figura in verde (1926) e L’ésprit de domination (1927).

Dopo i due anni trascorsi in America (1936-1937) in cui il pittore accresce la sua fama a livello internazionale, allestisce una personale presso la Julien Levy Gallery di New York e collabora con importanti riviste di moda (“Vogue” e “Harper’s Bazaar”), a partire dal 1944 De Chirico si stabilisce definitivamente a vivere e a lavorare a Roma, spostandosi nel 1947 nella casa-atelier di Piazza di Spagna che oggi ospita il museo a lui dedicato.

Muore a Roma il 20 novembre 1978.

Orgoglioso della propria autonomia figurativa che andava ponendosi in aperta contrapposizione alle novità introdotte dalle avanguardie, lo stesso De Chirico rivendicò sulle pagine di “Valori Plastici” la continuità della propria pittura con la tradizione e la sua natura di artista “classico”. La passione del pittore per la mitologia e i luoghi della classicità viene fatta risalire direttamente al luogo di nascita dell’artista, che egli stesso considererà sempre come fonte primaria d’ispirazione, forza catalizzante per la definizione della propria attività pittorica, a cui si riallaccia sin dalle prime opere, come dimostra il dipinto Lotta di centauri (olio su tela, 1909, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), liberamente ispirato al Simbolismo tedesco di Böcklin e Klinger.

Avvicinatosi negli stessi anni alle letture di Nietzsche e Schopenhauer, dai quali il pittore apprese “il profondo significato del non senso della vita e come tale non senso possa essere tramutato in arte” – come egli stesso dichiara -, De Chirico diede vita nel 1909 alle sue prime sperimentazioni in chiave metafisica apprezzabili nell’opera Enigma di un pomeriggio d’autunno (olio su tela, Buenos Aires, collezione privata), in cui la visione di piazza Santa Croce a Firenze si trasforma in una metafora che unisce, in un’atmosfera straniante e sospesa, passato e presente: la chiesa ottocentesca diventa infatti un edificio classico, la scultura di Dante una statua antica priva della testa, mentre fa già capolino nella raffigurazione l’elemento incongruo – la nave che si staglia sopra i tetti, simbolo dell’ignoto.

Gran parte della fortuna odierna dell’artista è dovuta ai dipinti dal fascino magnetico e misterioso in cui manichini statici e senza volto abitano piazze deserte, connaturati spesso da velate implicazioni filosofiche, enigmi che attestano la possibilità della pittura di comunicare un mondo che si discosti dalla realtà fisica. È il caso ad esempio del celebre Le muse inquietanti (olio su tela, 1917, Milano, collezione privata), dove la città di Ferrara, riconoscibile dal Castello Estense affiancato però da un’incongrua fabbrica con ciminiere – la tipica commistione tra antico e moderno – fa da palcoscenico a fantocci stolidi e non comunicanti, il tutto realizzato attraverso ombre crude e una pittura piatta quasi priva di chiaroscuro.

Intorno alla metà del secolo il pittore dedicò gran parte delle proprie ricerche formali e filosofiche ad un nuovo filone tematico, quello della natura morta, di cui restano numerosi dipinti, tra cui Frutta nel paesaggio con tenda rossa (olio su tela, 1946, Roma, Fondazione Giorgio e Isa De Chirico), a cui affianca quello della rappresentazione di cavalli.

Nell’ultima fase della propria attività, che viene definita “neometafisica”, De Chirico tornò a riflettere sui temi e sulle ricerche formali che lo avevano occupato negli anni ’20 e ’30, come dimostra il dipinto Orfeo trovatore stanco (olio su tela, 1970, Roma, Fondazione Giorgio e Isa De Chirico), in cui ricompare il manichino attorniato da oggetti apparentemente fuori contesto, simboli onirici di una realtà che può essere solo percepita come visione, in cui il passato e il presente – cui accenna la ciminiera sullo sfondo – possono fondersi senza idiosincrasie.