Nato a Trieste il 3 febbraio del 1888 lo scultore Attilio Selva frequentò la locale Scuola Industriale dove apprese l’arte statuaria, per poi trasferirsi nel 1906 a Torino per studiare con Leonardo Bistolfi. A partire dal 1905 Selva si legò di amicizia con Felice Carena ed iniziò a partecipare alle prime rassegne, vincendo poi l’anno seguente il prestigioso Premio Rittmeyer che consentiva il soggiorno romano. Giunto nell’Urbe nel 1909 e stabilito il proprio studio in uno degli ambienti di villa Strohl-Fern, crogiolo di fervide sperimentazioni artistiche, lo scultore poté dedicarsi allo studio della statuaria classica e di quella egizia, che costituirono un importante modello per la definizione del suo linguaggio formale. A ciò si aggiunse la frequentazione del salotto del medico Angelo Signorelli, collezionista di antichità, e quella con gli artisti triestini che si riunivano intorno all’archeologo Giulio Quirino Giglioli. Grande impatto ebbe sullo scultore l’Esposizione Internazionale di Belle Arti del 1911, allestita per celebrare il cinquantenario del Regno d’Italia, che gli consentì di entrare in contatto diretto con le opere di Auguste Rodin e Ivan Meštrović, massimi rappresentanti delle ricerche contemporanee nell’ambito della scultura.

Nel 1912 Selva aderì alla Secessione romana e prese parte alle rassegne organizzate dal gruppo di artisti dissidenti, nel 1914 fu la volta della sua prima partecipazione alla Biennale veneziana, mentre l’anno seguente espose alla terza mostra secessionista sculture come Idolo e Ritmi, espressione di uno stile sodo ed equilibrato.

Dopo aver preso parte in prima linea alla Grande Guerra, l’artista si mosse in direzione di un rinnovato interesse verso la tradizione rinascimentale, in un comune sentire col resto degli artisti presenti nel 1918 alla mostra alla Casina del Pincio, dove al Nostro fu riservata una sala personale.

Vasto successo ottenne lo scultore alla Promotrice di Torino del 1919, dove opere come Susanna (marmo, Torino, Galleria Civica) ed Enigma vennero celebrate dalla critica per la rigorosa logica costruttiva, la disposizione ritmica della posa e la morbidezza delle linee.

Durante gli anni Venti si strinse il legame tra Selva e il critico Ojetti, che nel 1922 destinò una versione in marmo di Marcellina al Museo d’Arte Italiana di Lima, per poi incoraggiarlo a partecipare al concorso per il Monumento alla Madre Italiana in Santa Croce a Firenze, dove il Nostro arrivò secondo. Intanto nel 1920 lo scultore aveva soggiornato in Egitto in occasione dei lavori in Palazzo Abdin del Cairo, dove poté confrontarsi direttamente con la tradizione locale, inaugurando successivamente un’intensa e fortunata attività destinata a diversi ambiti, da quello funerario a quello decorativo e di arredo urbano, protrattasi per tutti gli anni Trenta. Al 1925 risale la conclusione del Monumento ai caduti di Quinto Treviso, nel 1930 termina i lavori per il Teatro del Dopolavoro ferroviario a Roma, mentre nel 1935 licenzia il Monumento ai caduti di Trieste.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il lavoro dello scultore subì un brusco arresto, e alcune commissioni si risolsero in un definitivo annullamento, come nel caso del grande gruppo con la Deposizione destinato alla chiesa sotterranea della Stazione Termini. Al 1943 risale l’assegnazione della cattedra di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, carica che mantenne fino al 1958, accrescendo in quegli anni la frequenza dei soggiorni di ritiro presso Anticoli Corrado.

La stagione della ricostruzione post-bellica segnò per Selva un periodo di nuove committenze legate prevalentemente all’ambito ecclesiastico, improntate ad un serrato confronto con la tradizione seppur votate ad una più prosaica semplificazione, come ravvisabile nel grandioso Sant’Eugenio nell’abside dell’omonima Basilica terminato nel 1951. Con l’avanzare dell’età divenne sempre più preziosa la collaborazione e il sostegno dei figli Bernardo e Sergio, che aiutarono il padre a portare a compimento le ultime grandi opere monumentali come il gruppo con la Morte di San Benedetto per l’abbazia di Montecassino (bronzo, 1952-1953, in loco).

Morì a Roma il 20 ottobre 1970.

Formatosi sull’esempio bistolfiano, improntato ad un’arte caratterizzata dalla rielaborazione della lezione classica fusa con una sensibilità moderna dalla forte valenza simbolica, le prime opere dello scultore mostrano il raffinato linearismo di gusto internazionale, come può osservarsi in Sfinge (marmo, 1914, collezione privata), esposta alla Biennale di Venezia del 1914, che spicca per il rigore delle forme tornite.

In una fase più matura della propria carriera Selva si interessò con fervente impegno ai rapporti tra figura umana, architettura e ambiente esterno, apprezzabile nei quattro Atleti scolpiti tra il 1928 e il 1930 per lo Stadio dei marmi al Foro Mussolini di Roma, evocanti un eroico classicismo.

Ma il genere che Selva in assoluto predilesse, e che frequentò assiduamente durante tutta la propria carriera, fu quello del ritratto, nel quale plasmò opere soffuse di toccante intimismo, sensibilità e finezza di esecuzione, plasmando ritratti che spesso risentivano della plastica antica, come nel caso di Camilla (bronzo, 1914, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), accostata dalla critica al vigore di un bronzo di scavo romano.