| OPERA DISPONIBILE

Manuel Olivé (Oliver), modello
Attivo a Roma e Barcellona, notizie dal 1786 al 1802
Francesco Righetti, fusione in bronzo
Roma 1749-1819
Ercole Farnese • 1786
Bronzo, altezza 76,5 cm
Firmato e datato sul retro in basso: “MOlive / 1786”
L’Ercole Farnese esercitò per generazioni di artisti, viaggiatori e collezionisti un fascino straordinario, rientrando per i teorici del Settecento nel selezionato gruppo di sculture del grado sublime, la più alta delle categorie attribuite alla bellezza.
Rinvenuta nel 1546 negli scavi delle Terme di Caracalla, la scultura risultava già nel cortile di Palazzo Farnese nel 1556 completa di tutte le sue parti. L’Ercole infatti fu trovato senza testa, già scoperta anni prima, e immediatamente risarcita, e senza la parte inferiore delle gambe che su raccomandazione di Michelangelo venne integrata dall’allievo Guglielmo Della Porta (Haskell, Penny, 1984, pp. 272-280).
Anche le gambe originali furono ritrovate qualche tempo dopo, ma non furono aggiunte alla statua poiché Michelangelo convinse i Farnese a mantenere il restauro del Della Porta per dimostrare che la scultura moderna poteva reggere con sicurezza il confronto con quella antica. Si dovette attendere il 1787 perché la scultura venisse reintegrata di tutte le parti originali, quando lo scultore Carlo Albacini sostituì le gambe moderne con quelle antiche, in vista del trasferimento della celebre statua a Napoli, dove sarebbero state riunite le collezioni farnesiane.
Si avvertì a Roma lo sconcerto per la perdita di uno di quei capolavori che maggiormente avevano contribuito alla creazione dell’identità unica e irripetibile dell’Urbe. Goethe visse personalmente quell’evento e alla data del 16 gennaio 1787, nel suo Italienische Reise, annotava: “Roma è minacciata da una grave perdita artistica: il re di Napoli farà trasportare nella sua residenza l’Ercole Farnese. E’ un lutto per la comunità degli artisti, ma l’occasione ci consentirà di vedere un’opera rimasta ignota ai nostri predecessori” (Goethe, 1993, pp. 178-179). Lo scrittore tedesco proseguiva con l’apprezzamento della decisione di restituire all’opera le sue gambe originali “La statua suddetta, o meglio la parte dalla testa alle ginocchia e i piedi col relativo zoccolo, fu trovata in un terreno appartenente ai Farnese; mancavano le gambe dalle ginocchia alle caviglie e Guglielmo della Porta provvide a sostituirle. Fino ad oggi la statua ha poggiato su di esse. Nel frattempo le autentiche gambe antiche furono ritrovate in un terreno dei Borghese, e le si poté ammirare esposte a Villa Borghese. Con una decisione coraggiosa il principe Borghese farà omaggio di questi preziosi frammenti al re di Napoli. Le gambe rifatte dal Porta verranno tolte, al loro posto saranno messe quelle vere e, benché finora ci si accontentasse anche delle posticce, si prevede di poter avere della statua una visione del tutto nuova e di gustarla in modo più armonico” (Ibidem). Il dibattito sulla questione delle gambe era già in corso da qualche anno fra gli archeologi e gli eruditi. Già Mengs aveva ritenuto inadeguato l’intervento del Della Porta: “al confronto delle gambe moderne, che gli si sono applicate, il di cui scultore vi ha fatti i muscoli sì duri e tesi, che paiono non carne, ma corde”, un pensiero che proprio in quel fatidico 1787 veniva ripubblicato nella nuova edizione delle Opere curata da Carlo Fea. (Mengs, 1787, p. 150). Anche lo scultore Vincenzo Pacetti annotava
nel suo Giornale il 3 maggio 1787 “ho veduto l’Ercole di Farnese con le sue gambe rimesse, cosa stupenda” (Pacetti, c 80v).
La riproduzione in piccolo e in bronzo dell’Ercole Farnese, realizzata dal catalano Manuel Olivé l’anno precedente, il 1786, acquista in questo contesto un valore documentario di grande rilevanza, poiché rappresenta un’ultima testimonianza dell’Ercole prima del restauro dell’Albacini e anticipa la presenza del giovane scultore a Roma di almeno due anni, rispetto a quanto gli studi avessero finora potuto accertare (Brook, 2017, p. 362). Sono molto scarse le notizie biografiche sull’artista che nel 1784 è documentato alla Escuela del Dibujo di Barcellona dove avanzò un ricorso per un premio assegnato a un suo collega anziché a lui. E’ possibile che la delusione lo abbia portato ad abbandonare la propria città e a raggiungere Roma a proprie spese. Nel settembre 1788 si aggiudicò la prova semestrale dei “panni e pieghe” alla Scuola del Nudo in Campidoglio, diretta da Andrea Bergondi, con una figura panneggiata in argilla oggi perduta. E dal giugno dell’anno seguente, entrò nello studio di Pacetti: “sono trè giorni che è venuto a studiare uno spagniolo, Don Emanuelle, quale mi hà raccomandato Don Francesco Preziado” (Pacetti 2011, c.97r), il direttore dei pensionati spagnoli che per un cinquantennio ha indirizzato i giovani iberici all’interno dell’Accademia di San Luca e degli studi dei colleghi più accreditati. Da quel momento il giovane Olivé ha imparato molto da Pacetti, che lo ha seguito nella preparazione della terracotta da presentare al Concorso Balestra del 1792, promosso dall’Accademia di San Luca – Enea e Creusa – che si aggiudicò il primo premio, rivelando la piena acquisizione del linguaggio di Pacetti nel movimento a spirale delle due figure avvolte da panneggi rigonfi e frastagliati. L’opera era stata presentata con una patinatura a finto bronzo, di cui oggi restano poche tracce che rendono la superficie molto disomogenea (Barberini, 2000, p. 109).
Da questo ultimo dato della patinatura in bronzo decisa per l’opera da presentare al prestigioso concorso accademico – successo che gli avrebbe inoltre garantito una certa notorietà in patria come dimostra la richiesta al maestro Pacetti da parte dell’Accademia di Barcellona di avere una copia in gesso dell’Enea e Creusa – si può supporre che in quegli anni il giovane artista si fosse dedicato alla scultura in bronzo, magari all’interno di un’importante manifattura quali furono quella di Giacomo e Giovanni Zoffoli, dagli anni Sessanta del Settecento, e quella di Francesco e Luigi Righetti, dal 1781, specializzate nelle riproduzioni in bronzo e in scala ridotta dei più noti capolavori dell’antichità, con le quali assolvere a una domanda sempre più cospicua di ricordi del grand tour (Teolato, 2010, pp. 233-238).
Nei cataloghi di vendita di entrambe le aziende risulta disponibile la copia dell’Ercole Farnese, e sappiamo che tutt’e due si avvalevano dell’aiuto di giovani scultori esterni. E’ quindi da immaginare che Olivé, giunto a Roma per proprio conto, avesse trovato lavoro in uno di questi atelier attraverso il direttore dei pensionati Preciado, più probabilmente quello dei Righetti che, aperto da poco, era alla ricerca di scultori anche stranieri e appena formati. Il tipo di trattamento e finitura della superficie riconduce infatti ai bronzi dello studio Righetti, così come la dimensione che, seppur un unicum, si avvicinava di più a quella dei Righetti piuttosto che degli Zoffoli, dove solitamente non superava il palmo e mezzo di altezza (Teolato, 2010, pp. 234).
Ma quello che risulta importante in quest’opera, oltre alla qualità molto alta della lavorazione, è la data del 1786. Come si è detto sopra, l’Ercole era oggetto di dibattito fra gli intenditori e il restauro del 1787 venne accolto con grande favore da tutto il mondo dell’arte. Quindi la copia di Olivé del 1786, pur rifacendosi alla versione dell’Ercole integrata dal Della Porta, di cui rappresenta una delle ultime testimonianze, propone nel contempo un alleggerimento delle proporzioni delle gambe, probabilmente dopo aver visto quelle originali esposte nella Villa Borghese e aver così già immaginato quell’armonia ideale che l’anno dopo l’Ercole avrebbe riconquistato con l’intervento dell’Albacini. Del resto una certa libertà di interpretazione la si ritrovava spesso nella realizzazione dei gessi, soprattutto nella semplificazione degli elementi narrativi e della resa delle superfici. I progressi ottenuti da Olivé in quegli anni convinsero la Junta de Comercio di Barcellona a finanziare con una pensione di 12 reali al giorno il giovane scultore, che al ritorno in Spagna, nel 1796, fu incluso nel programma decorativo della sede della Junta, la Casa della Lonja, dove aveva trovato spazio anche l’Accademia di Belle Arti, per la quale realizzò le sculture di una delle facciate con la figura del fondatore di Barcellona, Amílcar Barcino, dell’Abbondanza, collegata al commercio, e di Cartagine, città che anticamente portò ai catalani prosperità. Nel 1802 per lo stesso edificio, Olivé realizzò per il grande ingresso le due statue con l’Africa e l’America, nelle quali la matrice classicista veniva coniugata al desiderio di conferire una certa monumentalità ai tratti primitivi delle due personificazioni dei continenti. Da quel momento anche l’Accademia di Barcellona cominciò a inviare i suoi allievi più promettenti a Roma, università delle arti, per ricevere quella preparazione che poi avrebbero declinato ognuno a modo proprio al ritorno in patria.
Carolina Brook
Bibliografia:
A. R. Mengs, Opere di Antonio Raffello Mengs, primo pittore del re cattolico Carlo III, pubblicate dal cavaliere Giuseppe Niccola d’Azara e in questa edizione corrette ed aumentate dall’avvocato Carlo Fea, Roma 1787.
F. Haskell, N. Penny, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica, Torino 1984.
J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1993.
M. G. Barberini, Scheda Manuel Olivé, in Aequa Potestas. Le arti in gara a Roma del Settecento, catalogo dellla mostra a cura di A. Cipriani (Roma, Accademia Nazionale di San Luca 2000), Roma 2000.
C. Teolato, Artisti imprenditori: Zoffoli, Righetti, Volpato e la riproduzione dell’antico, in Roma e l’Antico. Realtà e visione nel ‘700, catalogo della mostra a cura di C. Brook e V. Curzi (Roma, Fondazione Roma Museo 2010-2011), Milano 2010.
V. Pacetti, Roma 1771-1819. I Giornali di Vincenzo Pacetti, Pozzuoli 2011.
C. Brook, Vincenzo Pacetti e gli artisti spagnoli pensionados a Roma, in “Bollettino d’Arte”, Serie VII (2017), volume speciale, pp. 359-364.
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