| OPERA DISPONIBILE
Emilio Greco
Catania 1913 – Roma 1995
Il ritorno di Ulisse • 1965
bronzo, 125x106x16 cm
Firmato, datato e dedicato in basso a destra: “Ad Antonella / Emilio Greco / Roma 1965”
Bibliografia: J.P Hodin, Emilio Greco Sculptures and Drawings, Somerset 1971, p. 35, ill. 91; A. Tecce, Mecenatismo e committenza: da Leopoldo di Borbone alla collezione della Tirrenia, in N. Spinosa (a cura di), Il palazzo e la collezione d’arte della Tirrenia, Napoli 2001, pp. 53-63; p. 62, p. 105 ill. 54.
Esemplare unico
Artista dalla carriera lunga e costellata di successi e riconoscimenti – ricordiamo tra i tanti, la vittoria nel concorso per il Monumento a Pinocchio, collocato nel parco di Collodi; il Gran Premio per la Scultura alla XXVIII Biennale di Venezia del 1956; le porte del Duomo di Orvieto; il Monumento a Papa Giovanni XXIII nella Basilica di San Pietro in Vaticano; le esposizioni in Giappone e le sculture collocate nel museo all’aria aperta di Hakone; le grandi esposizioni dedicategli dal museo Puškin di Mosca e dall’Ermitage di Leningrado – con il suo linguaggio raffinato e idealizzante, Emilio Greco è da annoverare tra gli esponenti più rappresentativi della scultura figurativa del secondo Novecento italiano.
Le prime prove, che dalla fine degli anni ’30 arrivano a buona parte degli anni ’40, si muovono nell’alveo di un primitivismo di matrice più rustica e arcaizzante, dove evidente è il legame con il verbo del coevo Marino Marini e con la plastica imprescindibile di Arturo Martini. Eppure, nel modellato morbido, contraddistinto, specie nelle prove successive, da una levigatezza su cui la luce scorre e dilaga, traspaiono già quelli che saranno i valori formali che ne caratterizzeranno la produzione a seguire.
È all’inizio degli anni ’50 che la cifra di Greco si modula sul registro più personale con il quale è ampiamente riconosciuta. Protagonista diventa la figura femminile nel fiore degli anni, ma ad interessarlo non sono i meri valori di una sensualità epidermica e carnale – che emerge solo in non pervasive concessioni, come ad esempio, nel caso del Ritratto di Anna (1962) -, quanto piuttosto la sofisticata astrazione geometrica e idealizzante, dove si annida un sentimento profondo di malinconica, distante, nostalgia. La costruzione delle masse, che si dispiegano in accentuate torsioni di matrice manierista, si imposta su una linea sinuosa che lascia aperti i volumi fino a negarne quasi la consistenza plastica, un effetto che lo scorrervi della luce, anche nelle insistite graffiature, accentua ed esalta.
Per la fluidità del segno, l’arte di Greco è stata accostata a quella dei coevi Pericle Fazzini (1913-1987) e Marcello Mascherini (1906-1983). Se indubbio è l’apparentamento formale, profondamente diverse sono le direzioni delle loro ricerche: un’accensione lirica neo-barocca per Pericle Fazzini, lo ‘scultore del vento’ secondo la felice definizione del poeta Giuseppe Ungaretti; una ricerca più epidermica delle superfici in Marcello Mascherini. Ad accomunarli, però, è senz’altro la moderna rilettura di tutta la tradizione, dal mondo pre-romano agli esiti seicenteschi, ora condensandoli, ora accentuandone taluni raggiungimenti, secondo quella che è la linea guida della straordinaria ultima stagione della scultura figurativa italiana dispiegatasi nel corso della seconda metà del Novecento, le cui basi devono essere fatte risalire alla lezione di Arturo Martini.
Poi, sul limine degli anni ’60, ad Emilio Greco vengono commissionati l’esecuzione delle porte in bronzo del Duomo di Orvieto e i rilievi della Chiesa di San Giovanni Battista all’Autostrada di Campi Bisenzio nel comune di Firenze. Quasi sorprendentemente, verrebbe da dire, dato che, a precederli, abbiamo notizia solo di alcune prove giovanili degli anni ’40 e di un rilievo, Il samaritano, eseguito nel 1950, caratterizzato dalla linea morbida e dalla intensa valenza psicologica (Houdin 1971, p.34, ill. 90). Dunque, per ampiezza e complessità, questi due vasti cicli monumentali rappresentano senz’altro la prima vera occasione, per l’artista, di misurarsi con una dimensione di più ampio respiro narrativo. Se nella chiesa dell’Autostrada, dove il rilievo si innalza fin quasi al tutto tondo, sceglie una linea più secca per delineare composizioni dalla forte valenza espressionista di matrice donatelliana; nelle porte di Orvieto o, per meglio dire, nella porta centrale, la linea, pur ancora sintetica e arcaizzante si fa più morbida a tracciare, nel rilievo basso e stiacciato, composizioni intellettualisticamente più distillate, ma sempre dal forte timbro espressionista. In entrambi i casi i risultati sono di una qualità elevatissima, qualità che l’artista non smentisce nelle poche prove successive che, insieme a Il ritorno di Ulisse, si concretano nel Monumento a Giovanni XXIII (1965-67) e nella più tarda Dormitio Virginis del Duomo di Prato (1983), oltre a un pannello della Via Crucis (1964), dall’andamento più corsivo, per la chiesa di Santa Maria in Montesanto a Roma, successivamente replicato per essere collocato in piazza San Pietro.
Un tempo considerati dalla critica un episodio marginale poco significativo e d’occasione – cfr. ad esempio M. de Micheli, La scultura del Novecento, Torino, 1981, p.195 – i rilievi rappresentano invece, ad avviso dello scrivente, uno dei momenti più alti dell’opera di Greco, perché in essi l’afflato lirico sotteso a tutta la sua produzione, allontanandosi dalle astratte figure idealizzanti, si addensa in un suggestivo e convincente racconto ‘terragno’ intriso nei potenti umori dello scavo introspettivo sull’Uomo.
Commissionato dalla compagnia di navigazione statale Società Italia per essere collocato sul transatlantico Michelangelo, varato nel 1965 e rimasto in servizio appena dieci anni, Il ritorno di Ulisse è poi confluito nelle proprietà della società controllata Tirrenia di Navigazione, delle cui collezioni di scultura è stato il capolavoro (Tecce 2001, p.62). Dell’episodio narrato nell’Odissea, su cui torna più volte nelle prove grafiche, Greco sceglie di rappresentare il momento denso di pathos del disvelamento che deve restare muto. Ulisse, travestito da mendicante per non farsi riconoscere, è da poco sbarcato a Itaca. Al cospetto di Penelope e incalzato dalle sue domande, le ha appena raccontato quello che sa del suo amato marito, promettendone il ritorno. Per sdebitarsi, la commossa Penelope ha ordinato alla vecchia serva Euriclea, un tempo nutrice del piccolo Ulisse, di lavargli i piedi. Temendo che Euriclea potesse riconoscerlo dalla ferita che da piccolo gli aveva inferto un cinghiale, questi, seduto vicino a un focolare, si è girato per metterla dove è più buio, ma lo stratagemma non è sufficiente: “Quella ferita toccò con le mani aperte la vecchia, toccandola la riconobbe…Gioia e dolore insieme le presero il cuore, le si empirono gli occhi di lacrime, le venne a mancare la voce” (Omero, Odissea, trad. it. di M. Grazia Cini, Venezia 1994, p.657). Non è ancora giunto il momento di svelare l’identità e Greco, traducendo l’episodio in un dialogo silente, addensa lo struggente e indicibile climax emotivo accostando, in una costruzione intellettualisticamente e mirabilmente controllata, la testa della donna che, sopraffatta dall’emozione, si è poggiata sul ginocchio di Ulisse, a quella di quest’ultimo, il quale, anch’egli commosso, le sta riverso sopra. A bilanciare, sull’altra diagonale, il cane Argo, anch’egli protagonista dell’agnizione, e gli astanti, dove Penelope è la figura femminile sulla destra, i quali, pur senza poterne conoscerne il contenuto, reagiscono di fronte alla perentorietà come di natura divina dell’evento.
Realizzato subito a ridosso delle porte di Orvieto a queste si lega nella raffinata ed elegante partitura compositiva; nella superficie tassellata che, riprendendo un effetto quasi da mosaico, accentua la vibrazione luministica; e nella ripresa del motivo della figura femminile accosciata in basso a destra, che ricorre negli scomparti Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati e Alloggiare i pellegrini, la cui suggestione potrebbe aver derivato dall’Adamo accosciato del rilievo con La cacciata dal Paradiso di Lorenzo Maitani (ante 1275-1330) nella facciata del Duomo. Alle opere della chiesa dell’Autostrada rimanda invece la scelta di un rilievo più alto, sottolineato dai marcati sottosquadri, e quella, conseguente, di isolare maggiormente le figure, aspetto questo indicato anche dai disegni preparatori (Tecce 2001 p.62, ill. pp.54-55).
L’opera è esplicitamente dedicata alla figlia Antonella, fatto non unico nel lavoro di Greco, ma che qui appare singolare considerando che si tratta di un bronzo di commissione. La dedica è dovuta, come mi ha indicato la dott.ssa Greco, ai brillanti risultati che aveva ottenuto all’esame di quinta ginnasio. È solo un piccolo episodio di natura familiare eppure, nel mostrare con affetto un lato privato dell’artista, ci svela ancora una volta quel sentimento lirico dell’umano che ha guidato Emilio Greco nel corso di tutta la sua lunga carriera.
Eugenio Maria Costantini
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