Giovanni Duprè - Caino

All’esposizione del 1842 dell’Accademia di Firenze esordiva il giovane scultore Giovanni Duprè (Siena, 1817 – Firenze, 1882) con il modello in gesso dell’Abele morente. L’impressione suscitata dall’apparizione improvvisa di questo capolavoro era accresciuta dall’oscuritĂ  dell’artista e dalla circostanza della sua formazione da autodidatta, priva di quell’istruzione accademica comunemente ritenuta l’unica via all’eccellenza. Apparivano dunque inspiegabili sia gli straordinari esiti formali raggiunti dall’Abele, sia la sua attualitĂ , la sua capacitĂ  cioè di collocarsi nel vivo del dibattito artistico sulla questione dell’imitazione, davvero centrale nell’Ottocento e articolata, com’è noto, attorno ai temi dell’ideale classico e dell’adesione al vero naturale (1).
Proprio a Firenze tra il 1841 e l’anno successivo era esplosa la polemica sul famoso modello gobbo, che Lorenzo Bartolini aveva sottoposto “in azione” agli allievi dell’accademia per la rappresentazione del soggetto di Esopo che medita le sue favole. Lo scultore aveva voluto sostenere la bellezza, l’originalitĂ  e la dignitĂ  della natura, relativamente al soggetto da rappresentare, e l’istruttiva difficoltĂ  di un’esatta imitazione del vero come antidoto al “pregiudizio dell’idealismo” (2) e allo studio esclusivo delle statue classiche, ma aveva scandalizzato chi vedeva così violate le norme immutabili ed eterne del “bello ideale”.
La sconcertante naturalezza delle membra e dell’espressione dell’Abele, svincolata dalle convenzioni classiche nella restituzione di una natura individuale e libera da riferimenti iconografici all’antico, riaccendeva ora la disputa tra il partito degli “idealisti o accademici” e Bartolini. Questi, come annotava Duprè nei Pensieri sull’arte, dichiarò allora “che la prova piĂą convincente della bontĂ  del suo metodo era appunto l’Abele, la quale statua era fatta da un giovane che non sapeva nulla nĂ© di Fidia, nĂ© di Alcamene, nĂ© di altri, che non aveva respirato l’aria afosa dell’Accademia, e che affidatosi alla bella natura l’aveva copiata con fedeltĂ  e amore” (3). I detrattori sospettavano invece una frode e che la statua non fosse altro che un calco gettato direttamente sul vero. Artisti come Luigi Pampaloni e Giuseppe Sabatelli, che avevano assistito alla modellazione del prototipo in creta, testimoniarono pubblicamente l’originalitĂ  della statua. Si passò all’esperimento del confronto delle misure con il modello di Duprè, certo Antonio Petrai, fatto spogliare e collocato nell’attitudine dell’Abele.
Le forme naturalmente non dovevano coincidere, ma non solo per l’approssimazione nella prassi dell’imitazione del modello vivente. L’attitudine di Duprè nell’Abele verso il naturale è chiarita da Ettore Spalletti, al quale si deve nella recente monografìa l’esemplare analisi della complessitĂ  dei temi formali che la statua affronta e gli aspetti legati alla ricezione critica dei contemporanei.
Rispetto al disegno iniziale, dove il nudo è esposto con marcata e caratterizzata evidenza, nella realizzazione del modello in gesso (Fiesole, Gipsoteca Duprè) e della traduzione marmorea (San Pietroburgo, Ermitage) Duprè aveva abbandonato la rigorosa aderenza al modello per attuare delle concessioni alla “scelta” del “bello naturale” bartoliniano, variandone il volto e ingentilendone gli arti. Sostanzialmente però il procedimento che aveva garantito l'”autonoma naturalezza del modellato anatomico” dell’Abele si distanziava definitivamente dalla ricomposizione di parti scelte su cui si fondava il purismo bartoliniano (4).
La figura di Abele era stata rappresentata in chiave elegiaca, con le membra di una bellezza pacata e in abbandono, sottolineata da linee armoniche e flessuose, dal contorno chiuso. La statua successiva di Duprè, il Caino dopo il delitto, fu concepita come un pendant in dialogo scenico a contrasto con la prima. Su istigazione del conte Dal Benino, che gli fornì i mezzi economici per intraprendere il nuovo lavoro in uno studio affittato allo scopo in quel medesimo 1842, l’artista volle fugare definitivamente i sospetti di calco dal vero modellando una figura stante e in movimento, impossibile da replicare con mezzi meccanici. Nei Pensieri affermava: “L’idea del Caino mi venne spontanea. Un Caino! Il primo omicida, fratricida, soggetto fiero e tremendo d’una immensa difficoltĂ . Feci il bozzetto, e mi parve indovinata così la mossa come l’espressione” (5). La nuova statua trattava ancora una volta il tema del nudo, ora però forzato nella tensione eroica delle membra alla quale corrispondeva lo spasmo dell’espressione fisionomica. La posa sottolineava con enfasi il motivo narrativo dell’orrore del protagonista al cospetto del delitto commesso. L’intento sperimentale dell’opera si traduceva nell’esasperazione della passione, di segno anticlassico, e in un complesso movimento che sembra contemplare allo stesso tempo l’incedere e l’arretrare sgomento.
Il successo del Caino fu meno eclatante di quello ottenuto dall’Abele per “il sensualismo lirico” e “la piena accettazione del naturale” (6), ma Bartolini lo giudicò lavoro superiore (7). Entrambe le statue alla fine del 1842 furono commissionate in marmo dalla granduchessa Maria di Russia di passaggio a Firenze (San Pietroburgo, Ermitage) e in seguito furono tradotte in fusione bronzea da Clemente Papi per il granduca di Toscana Leopoldo II (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), qui effigiato in un busto marmoreo panneggiato all’antica (tav. XVIII).
Il ritratto non è firmato e si propone, in attesa di ulteriori verifiche, l’attribuzione a Ottaviano Giovannozzi, scultore specializzato nell’iconografìa granducale, sulla base del piĂą tardo busto di Leopoldo II del 1843 e di quello di Maria Antonietta conservati a Palazzo Pitti (8).
Una straordinaria terracotta, riscoperta e presentata per la prima volta in questa occasione, si colloca nella fase iniziale del processo creativo del Caino di cui costituisce una prima idea. L’azione si discosta da quella rappresentata nel modello definitivo in grande. Come in un bozzetto in gesso custodito a Villa Duprè a Fiesole e pubblicato da Spalletti (9) – in gran parte corrispondente alla statua finale ma con le varianti del volto girato di lato e la mano portata a coprire l’orecchio – essa sembra rappresentare l’orrore del protagonista all’udire la terribile voce divina, piuttosto che la disperazione alla vista del delitto commesso.
Anche la posa è diversa. In quest’accademia eroica la figura è in parte giacente sulla roccia, impegnata in un’espressiva torsione del corpo che favorisce lo sviluppo plastico tridimensionale contro l’elezione di un punto di vista privilegiato. L’articolazione nello spazio crea un susseguirsi di pieni e vuoti continuo in grado di amplificare quei contrasti cromatici in parte affidati alla modellazione delle superfici: riflettente anche se ricca di modulazioni quella delle carni, scabra e fortemente incisa quella della roccia e della testa.

G.Duprè - Caino

G.Duprè, Caino, Fiesole, Gipsoteca Duprè

Il tema del nudo “terribile” in tensione drammatica poteva naturalmente sollecitare il confronto con la tradizione recente di questo elevato genere della scultura e in particolare con i moderni capolavori di Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, ancora istruttivi verso quelle date per scultori di formazione romana come per esempio Achille Fraccaroli nell’Achille ferito (Milano, Galleria d’Arte Moderna) , modellato nel 1833. Ma Duprè non sembra guardare a quelle prove di segno classicista. NĂ© il bozzetto del Caino, con il suo contrapposto, sembra il frutto di una diversa rimeditazione sul passato figurativo e in particolare sulla scultura barocca, cui sembrerebbe competere quel movimento serpentinato. Piuttosto la posa appare come la traduzione di una semplice ed espressiva messa in azione del modello vivente, fissata nella creta durante la ricerca del culmine dell’impeto drammatico e meno studiata rispetto all’esito finale. A testimonianza di questa autonomia valgono le sottolineature realistiche, fortemente caratterizzate e legate all’individualitĂ  del modello vivente prescelto da Duprè anche per la statua definitiva. Corrispondono al modello del Caino poi tradotto in marmo sia i tratti del volto che la conformazione anatomica, dalle leve muscolari robuste ma agili, dalle estremitĂ  degli arti nervose e forti e dalle arcate costali prominenti.

Come nel modello antico del Laocoonte l’espressione del volto si riverbera nel corpo. Ma la costanza sublime nella sopportazione del dolore universalmente ammirata nell’icona del sacerdote troiano cede in questa scultura, dal registro ormai romantico, alla forzatura espressionistica, enfatizzata anche dalla foga esecutiva dei rapidi tocchi di stecca e dei segni dei polpastrelli. Come ha chiarito Carlo Sisi il gesto e la passione del Caino erano apparentati alla recitazione teatrale contemporanea, di cui Duprè conosceva le convenzioni (10), e non a caso furono apprezzati da Giuseppe Verdi, che nel 1845 visitò il suo studio (11).
Affideranno di lì a poco la propria carica rivoluzionaria ai medesimi strumenti del movimento e dell’espressione due celebri statue “moderne” come il Masaniello di Alessandro Puttinati (Milano, Galleria d’Arte Moderna), dotata di un soggetto nuovo per la scultura, e lo Spartaco di Vincenzo Vela (Lugano, Palazzo Comunale), dal soggetto classico ma reinterpretato in chiave risorgimentale. Sebbene autodidatta Duprè doveva guardare agli artisti contemporanei e avere a disposizione un ampio repertorio visivo su cui fondare il confronto dei temi legati all’elaborazione del Caino, cioè l’argomento eroico combinato al nudo inteso come il linguaggio suo proprio. Tra gli artisti toscani del primo Ottocento è possibile individuare dei punti di riferimento che sono stati qui raccolti, senza intenti esaustivi nĂ© fortemente esemplificativi, in grado tuttavia di suggerire spunti di dialogo, assonanze, ma anche gli scarti formali, favoriti da un continuo e sorprendente ricorrere dei motivi.
Com’è noto tre pittori tra Settecento e Ottocento sembrano orientare le sorti della pittura del sublime storico in Toscana: Luigi Ademollo in chiave epico-narrativa, Luigi Sabatelli in quella legata al sublime settecentesco di matrice nordica, Pietro Benvenuti nella classica dignitĂ  della “maniera grande” della tradizione italiana (12). Il primo (Milano, 1764 – Firenze, 1849) era stato il grande protagonista della pittura murale soprattutto a Firenze e Siena, cittĂ  natale di Duprè, dove in edifici privati e di culto aveva apparecchiato vaste e corali scene tratte dalla letteratura e dalla storia classiche, oltre che dal repertorio cristiano. La sua grandiosa visione narrativa articolava le figure all’interno di ambientazioni scenografiche, di paese o architettoniche, impreziosite da ricostruzioni fantastiche e antiquarie, secondo andamenti compositivi a bassorilievo o per contrapposizioni di masse e chiaroscuri. Talvolta l’esaltazione drammatica e sentimentale delle vicende rappresentate piegava eccentricamente la coerenza organica dei corpi al ritmo della linea in chiave neomanierista (13).
L’Ercole e l’Idra (tav. I), foglio forse legato alla raccolta di disegni sulle Metamorfosi di Ovidio citata dallo stesso Ademollo nell’Autobiografia come serie rimasta interrotta (14), concentra la violenza dell’azione nel nudo efficace ma di maniera nella resa anatomica. Una tempera di soggetto classico (tav. II) lega il tono aulico della narrazione con un linguaggio formale antigrazioso in un contrasto volutamente espressivo. Appartiene infine al vastissimo corpus delle sue incisioni (15) la movimentata acquaforte con il Trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo. Qui il registro narrativo popolare e l’aspra contrapposizione di luci e ombre sono impiegati con efficacia didascalica per illustrare l’emblematico destino del Colosseo, da infernale teatro del martirio cristiano ad augusta rovina cristianizzata dalle stazioni della Via Crucis.
Luigi Sabatelli (Firenze, 1772 – Milano, 1850) era stato l’interprete nella pittura neoclassica italiana del sublime settecentesco di influsso inglese, fuseliano e flaxmaniano. Aveva saputo conservare la matrice di quest’ispirazione anche dopo la Restaurazione, quando, in seguito al trasferimento nel 1808 a Milano, i frequenti soggiorni toscani lo avevano comunque visto impegnato in importanti commissioni a Firenze, come la volta ad affresco della Sala dell’Iliade a Palazzo Pitti iniziata nel 1820. A questa decorazione, densa di citazioni michelangiolesche e raffaellesche, sembra approssimarsi cronologicamente il foglio che illustra l’episodio biblico di Mosè che fa scaturire le acque dalla roccia, dove i riferimenti cinquecenteschi ispirano da un lato la solennitĂ  e il monumentalismo di alcune figure, dall’altro il vigore dei nudi e delle espressioni (tav. VIII).
Appartengono invece ai primordi della sua attivitĂ  due esemplari “tocchi in penna”, invenzioni grafiche per cui Sabatelli fu celebre e ricercato dai contemporanei, che ne apprezzarono anche i ritratti (tavv. X, XI, XII). Si tratta di due disegni rappresentanti Ugolino nella torre con i figli (tav. IV), legati alla trilogia sul tema dantesco concepita a Roma tra il 1793 e il 1795, anno della pubblicazione dei Pensieri diversi incisi all’acquaforte da Damiano Pernati. Il primo di questi due disegni appare infatti in traduzione calcografica in questa raccolta di illustrazioni di temi letterari e storici. La terribilitĂ  del sublime dantesco è evocata nel tema che in qualche modo costituisce l’equivalente moderno del classico Laocoonte, attraverso la deformazione espressionista di volti e corpi e la violenta contrapposizione dei partiti di luce e ombra. Così come i medesimi strumenti cromatici e la composizione di nudi ammassati “a piramidare” improntano l’“alta desolazione” – come scriveva lo stesso Sabatelli al mecenate Tommaso Puccini – della celebre scena della Peste di Firenze da Boccaccio, acquaforte pubblicata nel 1802, quasi piranesiana per drammatica grandiositĂ  (16) (tav. V).

G.Duprè - Caino

G.Duprè, Caino, San Pietroburgo, Ermitage

Materiali simili a questi dovevano essere ben presenti a Duprè, anche grazie alle traduzioni incisorie, e costituire per lui una fonte di sollecitazioni decisiva durante l’elaborazione dei suoi primi capolavori. Un altro interlocutore fu Pietro Benvenuti (Arezzo, 1769 – Firenze, 1844), il piĂą autorevole rappresentante dell’accademismo neoclassico a Firenze, citato tra l’altro nell’autobiografìa dello scultore per il ruolo avuto, assieme Giuseppe Sabatelli, figlio di Luigi (tav. IX), Emilio Santarelli e Aristodemo Costoli, nel procurargli i mezzi economici necessari per ultimare il modello dell’Abele. L’episodio che Duprè ricordava subito dopo però marcava la distanza dall’anziano maestro, che gli aveva suggerito di mutare il soggetto della statua in Adone. Asserendo di non aver mai voluto mescolarsi “fra i devoti dell’Olimpo”, Duprè si rivolse allora a Bartolini che approvò il tema sentenziando: “L’imitazione, il carattere e la forma di questa statua denotano che tu non sei dell’Accademia” (17).

Come Sabatelli, con il quale aveva condiviso l’apprendistato romano e gli scambi artistici garantiti dalla frequentazione dell”Accademia dei Pensieri” di Felice Giani, Benvenuti predilesse il genere storico sublime, orientandosi però sin dagli esordi verso un registro piĂą controllato della forma, esemplata sull’ideale classico e la nobile tradizione della “maniera grande” italiana della pittura del Cinquecento e del Seicento classicista (18). Dei suoi studi sul “bello ideale” nel nudo maschile e insieme della fiducia riposta nella pratica disegno come fondamento della pittura è testimonianza l’accademia del San Giovanni Battista nel deserto (tav. XXVII), variazione sull’iconografìa reniana e mengsiana utilizzata anche per l’Apollo vincitore del serpente Pitone (Roma, collezione privata). Se è nota l’esecuzione nel 1813 di un dipinto sul soggetto dell’Ugolino dantesco, in un altro foglio qui esposto, probabilmente degli stessi anni, si può verificare la sua attitudine nell’elaborazione dell’altrettanto tragica vicenda antica del Laocoonte (tav. VII). Come nella prova del 1812 di identico soggetto di Francesco Hayez per il concorso milanese di Brera (Milano, Accademia di Brera) (19), l’emulazione in chiave pittorica dell’originale plastico avveniva in chiave scenografica e corale e l’espressione patetica delle passioni conservava il decoro dell’ideale classico.
Benvenuti, la cui fisionomia ci è qui restituita da un Autoritratto del 1800 circa, in pendant con quello della moglie (tavv. XIX, XX), operava ormai a quelle date stabilmente a Firenze, dove era stato chiamato nel 1803 a occupare la cattedra di pittura dell’Accademia divenendo presto anche pittore di corte. Il suo classicismo davidiano corrispondeva alle esigenze rappresentative della politica napoleonica sia nella dimensione eroica associata agli eventi contemporanei, come nel Giuramento degli ufficiali Sassoni a Napoleone dopo la battaglia di Jena (Firenze, Galleria d’arte
moderna), prestigiosa commissione dell’Imperatore, che in quella del fasto mondano, allusiva però al ruolo sovrano di promozione delle arti, contenuta nella grande scena di conversazione Elisa Baciocchi tra gli artisti della sua corte (Versailles, MusĂ©e du Château), terminato nel 1813.
Proprio la granduchessa di Toscana è la protagonista di un ritratto eseguito nel 1812 dal senese Giuseppe Collignon (Castelnuovo Berardenga/SI, 1778-Firenze 1863) (tav. XXI). L’opera era stata eseguita a Roma, dove l’artista soggiornò a lungo durante il primo decennio dell’Ottocento – realizzando dipinti come La morte di Geta, inviato in patria nel 1809 e assai elogiato da Elisa (20), e quelli esposti nel 1812 all’Accademia di San Luca (l’Adorazione del cuor di Maria, il Cristo nell’orto e lo Sbarco di Bernardo Baldi nel porto di Arborea) (21) – e si aggiunge come inedito prezioso contributo alla straordinaria serie iconografica dedicata alla sovrana: oltre a Benvenuti e Canova, che compare nel citato ritratto di gruppo mentre presenta a Elisa il busto scolpitole, l’effigiarono scultori come Joseph Chinard, Lorenzo Bartolini e Luigi BienaimĂ©, e pittori come Marie-Guillemine Benoist, François Gerard, Stefano Tofanelli, Pietro Nocchi e Giuseppe Bezzuoli (22).
Elisa è presentata da Collignon sedente mentre tocca l’arpa, trattenendo con l’altra mano un rotolo di spartiti musicali. La tipologia della figura sedente di tre-quarti è aulica nel rimando ai modellli cinquecenteschi, raffinati sono la sobria eleganza dell’abito, con lo scialle cachemire a motivi Paisley discesole con noncuranza dalle spalle, e degli arredi, una poltrona Impero ornata di sfingi e l’arpa decorata a cineserie.
La rappresentazione è tuttavia lontana dall’opulenza e dal fasto di ritratti ufficiali come quelli della Benoist (Lucca, Pinacoteca), di Gerard (Roma, Museo Napoleonico) e dello stesso Benvenuti. Piuttosto si avvicina all’intimitĂ  domestica del dipinto di Bezzuoli (Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti), prossimo a questo anche quanto a datazione (23).
Mario Praz aveva verificato la fortuna, tra Settecento e Ottocento, del motivo della “dama con la lira”: dal ritratto di M.me de Stäel come Corinna di Elisabeth VigĂ©e-Lebrun, rappresentata secondo l’iconografìa classica della Musa, con il costume all’antica entro un paesaggio “eroico”, ai borghesi preziosismi descrittivi della pittura d’interno Biedermeier (24). Il gusto per quella rappresentazione era in questo caso evocato per sottolineare in una chiave lievemente sentimentale una dimensione privata della vocazione della granduchessa per le arti distinta da quella pubblica, celebrata da Benvenuti come in grado di emulare i fasti dei Medici (25).
Un saggio della ritrattistica di Benvenuti è riflesso anche dalla copia del Ritratto di Hermann e Jacoba Elisa Schubart nella residenza di Montenero (Danimarca, Castello di Holstemborg), eseguita da Giuseppe Colzi de’ Cavalcanti (Firenze, notizie 1803-1838, tav. XXII). Questa replica fedele e minuziosa, eseguita in dimensioni ridotte nello stesso anno dell’originale, il 1814, da un lato testimonia le aperture cosmopolite dell’ambiente toscano, dall’altro evoca in particolare i contatti con Thorvaldsen, che aveva modellato proprio nella villa presso Livorno nel 1810 il rilievo di Amore e Psiche collocato sullo sfondo del dipinto. Benvenuti e il danese furono legati da stima reciproca e amicizia, come prova anche il busto ritratto del pittore eseguito nel 1813 e collocato, in una successiva versione marmorea probabilmente eseguita da Emilio Santarelli, sul suo monumento funerario in San Lorenzo a Firenze (26). Le aperture internazionali dell’ambiente toscano sono tramandate dalla straordinaria serie prosopografica costituita dal corpus dell’opera di Giovanni Antonio Santarelli (Manoppello, 1758 – Firenze, 1726) pervenuto al Museo del Bargello: circa trecento ritratti in cera dedicati a regnanti, aristocratici, artisti, viaggiatori contemporanei dell’illustre ceroplasta che fu il massimo interprete del genere del ritratto di profilo all’antica plasmato in cera o intagliato in pietra dura e derivato dalla numismatica e dalla gemmologia romane. Sono qui presentati due ritrattini esemplificativi di questa produzione (tavv. XXIII, XXIV), uno dei quali noto in un altro esemplare appartenente al museo fiorentino e perciò identificabile come il profilo del generale Jacques Menou (1750-1810), eroe della spedizione in Egitto e Presidente della Giunta di Governo francese insediatosi in Toscana nel 1808 (27).

G.Duprè - Caino

G. Duprè, Caino

Il rapporto della pittura con la scultura è il protagonista di un altro dipinto presentato in quest’occasione, un olio a monocromo che imita il bassorilievo, di nuovo sul tema dell’Ugolino nella torre (tav. III). Per provenienza, i Parri e i Marchi di Firenze, in rapporti di discendenza con Giuseppe Bezzuoli (Firenze, 1784 – 1855), l’opera reca un’attribuzione tradizionale al capofila della pittura romantica in Toscana che sembra confermata dall’analisi formale. Inoltre nel catalogo delle opere di Bezzuoli riportato in appendice alla monografìa del 1855 è citato Il Conte Ugolino con i suoi figli con figure grandi al vero dipinto per l’artista americano Horatio Greenough (1805-1825) (28) . La commissione ricevuta dal collega, celebre scultore residente a Firenze, potrebbe giustificare il tentativo di emulare l’effetto plastico del bassorilievo. La tela qui esposta potrebbe dunque costituire il modelletto di quest’opera non ancora rintracciata.

Mentre i temi romantici si affermavano anche nei centri minori, come testimonia il foglio con Pietro l’Eremita che anima le Crociate di Alessandro Maffei, successore a Siena nella cattedra accademica di Ornato di quel Vincenzo Dei di cui il giovane Duprè aveva seguito le lezioni (tav. XV) (29), Bezzuoli tornava sul tema dantesco ma non ne privilegiava la ferocia drammatica, bensì indagava in chiave patetica gli affetti del padre che compiange la sorte dei figli. La rappresentazione era resa ancor piĂą commovente dagli straordinari dettagli naturalistici dei corpi infantili in estenuato abbandono, in rapporto con il “bello naturale” bartoliniano del Sonno dell’innocenza del 1824 e probabilmente con lo stesso Abele di Duprè, legame che andrĂ  chiarito attraverso ulteriori approfondimenti sulla cronologia del quadro di Bezzuoli. Il rapporto con la scultura dunque non si esauriva sul piano strettamente pittorico, dove comunque un consumato mestiere, una sprezzatura nell’uso della pennellata, e una semplificazione netta del chiaroscuro erano in grado di suggerire, oltre alla scabrositĂ  della pietra, anche certe asprezze del modellato plastico.
Un disegno qui esposto di Bezzuoli, dove il tema cristiano della Strage degli innocenti (tav. XIII) è interpretato in chiave neopoussiniana come una scena classica, dimostra la consuetudine del pittore con gli scultori, recando la dedica a Ulisse Cambi. Il piccolo olio con La Maddalena penitente chiarisce ulteriormente il neo-secentismo del pittore toscano orientato verso i modelli di Annibale Carracci e di Domenichino (tav. XXVI ) (30).
Nutrito del naturalismo impiegato da Bezzuoli nell’Ugolino appare un piĂą tardo foglio del suo allievo Antonio Ciseri (Ronco-Ascona/Canton Ticino, 1821 – Firenze, 1891). Si tratta di uno dei numerosi disegni preparatori realizzati durante la laboriosa e complessa preparazione della pala del Martirio dei Maccabei (Firenze, Santa Felicita), commissionata nel 1853 e terminata dieci anni piĂą tardi.
E lo studio di due cadaveri di martiri che compaiono in primo piano in un bozzetto del 1856, l’anno in cui il foglio fu siglato, ormai prossimo alla risoluzione del cartone definitivo (31). In questa fase l’allievo si era comunque ormai svincolato dalle convenzioni narrative della pittura romantica di Bezzuoli e il suo naturalismo analitico, dispiegato con fedele adesione al vero negli sperimentali studi grafici, era orientato piuttosto verso il rinnovamento della pittura storica operato da Domenico Morelli (32).
Il piĂą volte citato Lorenzo Bartolini e il registro della sua scultura eroica incarnato esemplarmente dall’Astianatte sono evocati in mostra attraverso un disegno attribuito al suo allievo e imitatore Egisto Rossi (tav. VI). La Peste è il soggetto di un gruppo di tre figure composto secondo l’iconografia antica del cosiddetto Pasquino o Aiace che sorregge il corpo di Patroclo, che costituì il modello dal quarto decennio dell’Ottocento per una serie di opere realizzate a Roma sul tema del Diluvio, sia scultoree (Mathieu Kessels, Giuseppe Dini), che pittoriche (Francesco Coghetti) (33). In tutte queste opere, come nel disegno di Rossi, la catastrofe naturale era l’oggetto di un sublime “terribile” indagato attraverso le diverse attitudini sentimentali dei protagonisti.
Il “bello naturale” bartoliniano nella sua declinazione purista torna nel San Giovannino orante di Luigi Pampaloni (Firenze, 1791 – 1847, tav. XXV), ispirato nelle proporzioni, nell’anatomia, nella fisionomia del volto ai prototipi quattrocenteschi fiorentini. L’opera, dove il sentimento di devozione si incarna nelle piacevoli forme infantili a sancire il fine pedagogico dell’arte, è contemporanea alla terracotta del Caino-, una prima versione fu eseguita infatti nel 1842 per la principessa Esterhazy di Liechtenstein e una replica di dimensioni piĂą ridotte fu terminata tre anni dopo e incisa da Nicola Sanesi (34). Entrambe le statue erano sino ad oggi di ubicazione sconosciuta e verosimilmente il marmo qui esposto va identificato con una di esse.
L’altro marmo di Pampaloni rappresenta la granduchessa di Toscana Maria Antonietta di Borbone (tav. XVII), seconda moglie di Leopoldo II, ed è un’altra versione, con varianti, di quello datato 1834 e commissionato dal fratello Ferdinando II Re delle Due Sicilie (Caserta, Reggia). Fu proprio Maria Antonietta una delle prime committenti di Duprè quando gli commissionò nel 1842 la statua di Giotto da collocare nel Loggiato degli Uffìzi (il soggetto torna nel disegno di Bezzuoli, tav. XIV).
E’ rivelatore del significato celebrativo in chiave romantica del culto degli illustri toscani professato attraverso il ciclo di statue degli Uffizi, presto disponibili a nuove allusioni risorgimentali, il piccolo ritratto di Francesco Ferrucci (tav. XVI) scolpito da Pasquale Romanelli (Firenze, 1812-1887), anch’egli allievo di Bartolini. E infatti la riduzione, con la variante del capo scoperto, del dettaglio del busto della statua dell’eroe fiorentino, protagonista di uno dei romanzi storici piĂą letti del Risorgimento, l’Assedio di Firenze del Guerrazzi, e simbolo della lotta contro lo straniero per la libertĂ  della patria, inaugurata nel 1847 nel portico degli Uffizi (35). L’artista, che partecipò agli eventi del ’48-’49, incise il motto “Viva Italia” sul medaglione di Ferrucci destinandone l’effige a un ignoto patriota.
Anche Giovanni Fattori, allievo della Scuola superiore di pittura del Bezzuoli, affrontava nei primi dipinti di tema storico la fonte letteraria del Guerrazzi dedicando tre dipinti all’Assedio di Firenze: Il sacco di San Marcello, I difensori della libertĂ  di Firenze che affrontano il patibolo e La battaglia di Gavinana (36). A questo artista è legato però un nuovo corso dell’arte toscana e italiana, inaugurato intorno a differenti problematiche formali e tematiche poco dopo quelle opere giovanili, come intende suggerire il suo foglio relativo alla campagna francese del 1859 in Toscana qui presentato (tav. XXIX).

di Stefano Grandesso