Giuseppe Ducret - Ritratto virile

…e racconta la storia

Gli incontri tra pittura e cinema sono infiniti e sono alla radice stessa del film per mezzo della fotografia. Infiniti sono anche gli incontri tra pittori e cinema. Qui non si tratta di forme ma piuttosto di poetiche; qui è la letteratura a proporsi come matrice: da Poe a Wilde il ritratto ha consegnato la memoria di sé al tempo lineare cinematografico laddove lo schermo ha spesso giocato sull’animazione della figura bloccata una volta per tutte sulla tela ricavandone storie, assai spesso – e non avrebbe potuto essere diversamente – storie del desiderio. O se volete desiderio di storia, di racconto, che e anche desiderio di una identità individuale e collettiva.

Tutto il cinema classico – anche quando non vi appaiono, come di sovente nel genere “nero”, quadri di cui svelare il segreto e a cui dunque ridare vita – è un cinema che lavora sul personaggio-attore: se questi è un divo, la sua immagine è legata alle fotografie che dissemina sui media; se è un caratterista, la sua immagine è di fatto una fotografia vivente, non ha a che vedere con l’aura del mito ma con il realismo della cronaca.

Il giovane Peppino Impastato che, affascinato da un ritratto di Majakovskij, chiede a chi lo ha dipinto di “raccontarne la storia” si inserisce perfettamente in quella tradizione classica e per più aspetti perduta o assente nel cinema italiano. Anzi ne è una possibile didascalia: l’arte del ritratto è la concentrazione in un volto della ricchezza narrativa di un paesaggio. E questa specifica teoria del ritratto calza perfettamente con lo stile di Ducrot, cioè con il pittore “vero” dei quadri ripresi sul set. Pezzi di verità come i frequenti brandelli di telegiornale che fanno da sfondo al tempo narrato del film. “Vero” come del resto vera è la storia a cui è stato chiamato a collaborare. Un Ducrot perfettamente scelto in quanto interprete ideale di un artista che sa suggestionare l’attesa dello sguardo con primi piani di volti tanto intensi, tanto emotivamente carichi di espressione umana da turbare i sensi (ciò di cui l’infanzia più dispone).

Marco Tullio Giordana con il ritratto di Peppino Impastato

Marco Tullio Giordana con il ritratto di Peppino Impastato
(foto di scena di Angelo Turretta)

È la scena con cui viene descritta l’iniziazione al comunismo del protagonista di un film-documento (come per il ritratto, si tratta di una fiction che lavora su un modello reale). La scena verrà rimessa in campo drammaturgicamente – la componente drammaturgica è quella più sentita e esibita in questo film di Giordana – alla fine del racconto-verità, quando Peppino sta per essere ucciso dalla mafia. Il ritratto di un bambino che ancora non conosce la sua storia e dunque è congelato nella propria inconsapevolezza si mostra ora a un giovane che ne ha vissuto il futuro ma che sta per tornare nella fissità della morte, nell'”icona” da cui oggi e stato ricavato il film. Un modo per “raccontare la storia” di uno dei ritratti della lunga e tragica galleria di vittime della mafia.

Dunque Giordana è insieme il pittore-militante del racconto e il Ducrot che con i suoi ritratti gli ha fornito la credibilità necessaria per essere vero: ha concentrato in queste due brevi sequenze la poetica del film: il mandato artistico ma anche sociale di un regista che usa il cinema per descrivere un nome, per nominare una identità.

Anche l’idea di definire il ritratto come un paesaggio trova una ulteriore spiegazione nella sequenza in cui Peppino, proprio mentre osserva l’amico che sta fotografando il paesaggio deturpato dalla speculazione dei mafiosi, mostra di sentire quanto ogni delitto sociale finisca per diventare natura, normalità persino affettività (famiglia: padre e madre). Il lavoro di regia in questo caso per Giordana è stato anche quello di scoprire ciò che il paesaggio nasconde, l’amoralità di ciò che ce lo rende familiare.

di Alberto Abruzzese

 

Volti, rughe, sguardi obliqui

Abbiamo pensato a Ducrot, ricordando entrambi una bella mostra di ritratti presentata da Erri De Luca qualche anno fa proprio qui da Carlo Virgilio. Erano ritratti di commilitoni, volti nei quali era forte il disagio di una torsione (la naja) occasionale ma al tempo stesso ferocemente incisiva. Quei ragazzi, sospesi come in uno stato senza tempo e senza identità, raccontavano lo stordimento, la spossessione, l’assenza di desiderio e iniziativa. Si intuiva, dietro tutti quei volti, istupiditi da bromuro e sveglie all’alba, l’energia che covava sotto la cenere, la voglia di esplodere e ribellarsi. Solo chi li avesse molto amati poteva scoprire e trasmettere la vitalità di quei ragazzi nascosta e compressa dalla vita militare. Ceraolo ed io avevamo conservato la stessa sensazione; non abbiamo avuto alcun dubbio nel chiedere a Giuseppe di “essere” il nostro Stefano Venuti prima ancora dell’attore che l’avrebbe impersonato (il bravissimo Andrea Tidona).

Abbiamo chiesto a Giuseppe di andare a Cinisi, di scegliersi una quindicina di persone da ritrarre. Volti, rughe, sguardi obliqui nei quali distinguere l’orgoglio celato dall’apparente sottomissione. Nessuna ulteriore istruzione, nessuna richiesta particolare. Più che ripresentare allo specchio la mia idea speravo che Giuseppe mi sorprendesse, mi facesse vedere quello che aveva visto lui in aggiunta e oltre quello che avevo visto io. Ha fatto le sue ricerche, ha scelto le sue “facce”. Li ha incontrati, li ha convinti, ha stabilito il suo personale rapporto con loro. L’atelier era installato nello stesso ambiente che Franco stava intanto preparando per il film, un grande appartamento nel corso principale di Cinisi rimasto come lo lasciò l’ultimo proprietario più di vent’anni fa. Ho visto i ritratti solo a lavoro finito: erano bellissimi o, forse, più che bellissimi erano esattamente quello che cercavo, stupore compreso. Anzi, nemmeno: erano qualcosa in più. Per molti giorni in seguito, girando per Cinisi, mi è capitato di incrociare i modelli di Ducrot, di riconoscerli a loro insaputa. Nel film questi quindici ritratti sono sparpagliati nella scena 10, studio Venuti, interno giorno. Non si vedono tutti, perlomeno: non si vedono tutti bene. Alcuni sono fortemente sottolineati (tre ritratti inquadrati a pieno schermo), altri fanno da sfondo (lo splendido ritratto azzurro di Majakovskij), un altro lo vediamo a distanza in una scena successiva (il ritratto di Peppino adolescente). Alcuni stanno in alto, la macchina da presa li sfiora appena. Altri sono fortemente contrastati dal bel controluce col quale il direttore della fotografia Roberto Forza ha allagato tutta la scena. Sono contento che questa mostra permetta di vederli uno ad uno, di riconoscerli, di ritrovarli.

Bozzetto per lo studio di Stefano Venuti

Bozzetto per lo studio di Stefano Venuti
(scenografia di Franco Ceraolo)

Peppino Impastato nasce a Cinisi, provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia contigua a Cosa Nostra. Il padre, Luigi, è un piccolo imprenditore affiliato al clan di Gaetano Badalamenti, lo zio, Cesare Manzella, un capo-mafia che verrà ucciso nel 1963 nel corso di una guerra tra opposte fazioni.

Ancora ragazzo Peppino rompe col padre e avvia un’attività politico-culturale che finirà per confliggere direttamente coi mafiosi. Nel 1967 fonda il circolo Musica e Cultura promuovendo cineforum, concerti, spettacoli e dibattiti fra i giovani di Cinisi e del circondario (Terrasini, Partinico, Villagrazia). Nel 1976 fonda Radio Aut, piccola emittente corsara con cui denunzia illegalità e affari dei boss. Il suo programma Onda Pazza – che mette alla berlina mafiosi, politici e portaborse – sarà esempio per molte altre radio come la sua.

Nel 1978 decide di candidarsi come indipendente nelle liste di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, durante la campagna elettorale, con una carica di tritolo che lo dilania sui binari della ferrovia. Gli investigatori esitano, non vogliono pronunciare la parola “mafia”. Ci vorranno vent’anni prima che la Procura di Palermo incrimini Tano Badalamenti come mandante dell’omicidio. Malgrado il clima di intimidazione i suoi funerali si trasformeranno in una delle prime grandi manifestazioni di massa contro la mafia e gli elettori di Cinisi voteranno per lui eleggendolo simbolicamente in Consiglio comunale.

Il cuore del film è soprattutto la storia di un rapporto (mancato) col proprio padre naturale, la continua proiezione e ricerca da parte di Peppino di figure (o statuti) che possano sostituirlo. L’incontro col pittore Stefano Venuti, segretario della sezione PCI di Cinisi, non sarà solo l’elezione affettiva di un possibile padre nobile ma la scoperta stessa della politica, l’individuazione del percorso in cui muovere i propri personali “cento passi”. Ma Venuti non è soltanto un politico; è anche e soprattutto un artista e l’imprinting di quell’incontro determina in Peppino adolescente una vocazione nella quale il richiamo della cultura e dell’arte “pesa” quanto quello del bisogno di uguaglianza e di giustizia. Nel caratterizzare il personaggio di Stefano Venuti (mancato ultranovantenne pochi mesi fa e voglio qui ricordarlo con tenerezza) ho cercato insieme allo scenografo Franco Ceraolo una pittura che non fosse il calco mimetico di quella originale. Ci voleva qualcosa di molto “forte” per quei pochi secondi in cui sarebbe apparsa nel film, qualcosa che raccontasse, oltre ai soggetti scelti, anche di lui. “Una faccia è come un paesaggio – dice Stefano Venuti – e un paesaggio può essere un bosco, un giardino, oppure una terra desolata dove non cresce niente”. Ritratto e paesaggio andavano cercati in uno stesso segno.

di Marco Tullio Giordana