Le donne hanno sempre avuto un grande ruolo nella storia della fotografia: ritratte, ritrattiste e autoritratte.

A differenze di altre discipline artistiche le donne hanno immediatamente invaso il mondo della fotografia: penso a tre cose fatte o viste di recente: le mostre da me curate all’American Academy e alle Scuderie del Quirinale, con Esther Van Deman e Lee Miller protagoniste e la mostra di Cindy Sherman appena chiusa da Gagosian.

La Sherman riapre un capitolo che è quello della rappresentazione delle donne in fotografia e ancor di più dell’autoritratto (e qui ho sempre una domanda inevasa e cioè perché l’autoritratto è quasi sempre una specialità, un bisogno delle donne in fotografia?).

Il ritratto è un genere fotografico difficile, molto difficile. Spesso annoverato in un’arte di servizio raggiunge nelle poche eccezioni punte notevolissime. Distinzione fondamentale tra un’arte accessoria e una disciplina altissima e un piccolo ma intenso passo de La Camera Chiara di Roland Barthes “La Foto-ritratto è un campo chiuso di forze.

Quattro immaginari vi si incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che io vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. (…) Dal momento che ogni foto è contingente (e perciò stesso fuori senso) la Fotografia può significare (definire una generalità) solo assumendo una maschera (…).

E’ per questa ragione che i grandi ritrattisti sono dei grandi mitologi: Nadar (la borghesia francese), Sander (i tedeschi della Germania prenazista), Avedon (la high-class newyorkese)”. Ritratti di signora è una creazione collettiva di una maschera, quella delle donne romane tra le due guerre.

Diverse donne fotografate da diversi fotografi, un ritratto di una varia e nascente borghesia, la creazione di una sua “maschera” attraverso l’identità dei soggetti e l’identità dei fotografi. E qui si arriva alle scelte curatoriali: restringere il campo a 40 fotografie rafforza l’identità del “gruppo” (dei “due gruppi”) e di ogni singola fotografia, elimina il pericolo di una serialità più “commerciale” che ricercata, per indagare il genere del ritratto in una città che si propone di ripercorrere gli antichi fasti, con una strana borghesia, ormai classe dirigente. La città dopo i tutti i passaggi del Grand Tour iniziava a diventare metà di generazioni di fotografi, penso a Parker e alla Van Denam e successivamente alla Masson e a Gendel, e Ghitta Carrel e Eva Barrett, arrivando rispettivamente dall’Ungheria e dall’Inghilterra, rinfoltirono questa tradizione, unendosi al gruppo di fotografi attivi a Roma.

Il ritratto è un’arte indagatoria, singola e collettiva, che questa mostra rivela benissimo; è l’arte dell’attesa: pensare e aspettare in un rapporto diretto tra fotografo e fotografato. Tutti i grandi ritrattisti contemplano l’attesa, usano il grande formato, sono asciutti e partono dal volto, mettono loro stessi nelle fotografie. E la magia è tutta in un equilibrio che si compie o meno: nessuno ruba la scena e tutti sono indispensabili, quanto il risultato finale: il ritratto stesso.

Questa mostra è un piccolo saggio collettivo di ritratto storico, una classe contestualizzata, e un’indagine sul lavoro di singoli fotografi, rappresentati con opere tra le più belle della loro produzione. Tecniche miste, supportano la ricerca più profonda dei singoli fotografi. E spesso nei ritratti non è presente un’ambientazione ma solo un volto stretto massimo risultato dell’asciuttezza in una mostra che del valore della sottrazione da un punto di vista curatoriale ne fa un punto di forza.E una galleria è anche una piccola parte della città stessa dove opera: questa mostra è su Roma, è in sintonia con un mondo molto spesso incontrato dalla galleria stessa e con molte delle cose che sono accadute e accadono in città negli ultimi mesi (penso appunto alla Sherman, così come a altre mostre fotografiche e penso a una volontà diffusa di indagare pezzi di storia della nostra città, così come alla rivalutazione dell’arte fotografica senza intaccare l’identità della galleria stessa).

E poi penso al coraggio di lavorare sul ritratto e sui suoi tre fattori: fotografi, persone ritratte e le magie degli incontri: questa mostra è una piccola e preziosa serie di magie.

di Marco Delogu